ILENA AMBROSIO | La fiaba delle fiabe quella di Cappuccetto Rosso. Un must al momento della nanna, per la sua leggiadra semplicità, per l’intreccio lineare che scivola via tra inizio, catastrofe e lieto fine. Eppure, dietro questa semplicità, si celano aspetti di spaventosa ambiguità e inquietudine.

Tra questi due poli si muove Cappuccetto Rosso di Michelangelo Campanale, vincitore di Festebà 2018, che abbiamo avuto modo di vedere al Kids Festival del teatro e delle arti per le nuove generazioni  – ulteriore conferma dell’elevata qualità artistica di questa IV edizione.
Una rilettura, quella di Campanale,  drammaturgicamente fedele all’originale (eccetto che nel finale) ma scenicamente arricchita di elementi originali che la impreziosiscono di rimandi musicali, pittorici e cinematografici, restituendone un senso, una “morale” – per restare nel lessico fiabesco – tutt’altro che semplice e tranquillizzante.

La scena, inizialmente vuota, svela ben presto un fondale animato dai video curati da Leonardo Summo; diverse ambientazioni che, insieme a un disegno luci di straordinaria varietà e bellezza, creano immagini pittoriche vivide e poetiche, nelle quali si muoveranno figure “disegnate” dagli accurati costumi  di Maria Pascale.

La vista manda un impulso alla memoria che immediatamente si riporta ad ameni boschetti, animali antropomorfi e principesse dei cartoni disneyani degli anni ’90 – che bei ricordi! Ma la tavolozza di colori è anche quella dei capolavori di Goya – da 3 Maggio 1808 sembrano uscire i soldati/cacciatori che tentano di uccidere il lupo – dei paesaggi sfumati di William Turner, dei prati brulicanti di animali inquietanti nello stile di Bosch.

Accanto a questo, la selezione sonora e musicale – come postulato anche dalla teoria degli affetti cinque-seicentesca che avvicina specifiche sonorità a specifici sentimenti – comunica di volta in volta l’atmosfera emotiva del momento: una percussione a metà tra il tuono e il battito cardiaco per il primo incontro tra il lupo e Capuccetto; l’Ouverture del Guglielmo Tell che, con le sue progressive modulazioni tematiche, accompagna la scena pastorale, la trasformazione in lupo mannaro, l’arrivo dei soldati/cacciatori; ancora Dance me to the end of love di Leonard Cohen interpretata (in playback) da uno spavaldo – e sì, sotto sotto affascinate, diciamolo – lupo in versione night club.

Scelte che differenziano il lavoro di Campanale – giusto per proporre qui dei confronti in analogo ambito di teatro danza – dal Cappuccetto rosso di Joël Pommerat, e anche dal più recente C’era una volta una bambina, Cappuccino Rosso di Once Teatro, ispirato all’omonimo libro di Giovanna Zoboli. Nel primo un narratore tira le fila della storia su una scena asciutta, abitata da due attrici che – con maschere stilizzate e accenni di costume – fluidamente passano dall’interpretare la protagonista, poi la madre, la nonna e lo stesso lupo: mutevolezza che pare voler mettere a fuoco proprio le multiple relazioni tra queste figure. Nel secondo caso, invece, due interpreti – che pure vivono in un contrasto cromatico rosso-nero – danno corpo a una rilettura della fiaba, anche qui, focalizzata sul rapporto Cappuccetto-lupo, sull’antitesi casa-bosco, sulle scoperte derivanti dall’addentrarcisi.

In Cappuccetto di Campanale, invece, è un intero universo fiabesco a prendere vita. Si susseguono tableaux che sintetizzano visività, sonorità ed emotività, portando avanti il racconto senza indugiare nei suoi snodi, ma dandoci esattamente la sensazione di stare sfogliando un libro di fiabe pop up.

Tra quelle pagine tridimensionali si muovono i personaggi che, attraverso il corpo, la danza, un linguaggio fatto di gesti ed espressioni, raccontano la storia, facendosi, anche loro, parte integrante di quelle illustrazioni animate.
Il lupo è un uomo in doppio petto il cui aspetto animalesco esplode subito nel prologo danzato sulla splendida Fanfare de la vie di Bruno Coulais. Un lupo mannaro, d’altronde,  le trasformazioni del quale sono annunciate da una sfera luminosa che maneggia con cura, cui fa da pendant la luna piena che si delinea sul fondale.
Marco Curci – insieme agli altri danzatori della Compagnia EleinaD – interpreta il personaggio senza ricorrere a un vera e propria imitazione: ne assume le minime movenze bestiali, l’atteggiamento; è come se ne fosse posseduto.


Quando Cappuccetto fa la sua sortita, ne resta incantato, ipnotizzato come solo un animale quando fiuta la sua preda. Lei – Erica Di Carlo – una ragazzina dai capelli rossi raccolti in due trecce è figura eterea, leggiadra, che incarna perfettamente l’innocenza, l’ingenuità, la totale inconsapevolezza di qualsivoglia malvagità.
La attira a sé con una rosa rossa – la mente va a La Bella e la Bestia che pare “citato” anche dall’accostamento tra la leggiadria di lei e la bestialità di lui – e l’immagine della fanciulla, con il suo mantello rosso, sollevata da quell’uomo nero – perché anche questo è il lupo di Campanale – è un dipinto di estrema bellezza, ma che non risparmia un certo turbamento.

Gli altri tre interpreti – Claudia Cavalli, Francesco Lacatena, Roberto Vitelli tutti bravissimi – sono, a turno, una capretta in un bosco e due montoni, i tre cacciatori, la madre di Cappuccetto, la nonna. Ai loro ingressi corrispondono i momenti di maggiore leggerezza e ilarità dello spettacolo – particolarmente divertente Roberto Vitelli nei panni del cacciatore imbranato che, però alla fine, sarà il risolutore della vicenda –; quelli che fanno sorridere i bambini e gli adulti.

Eppure c’è un surplus di senso evidentemente percepibile solamente da questi ultimi.
Il recupero, in qualsivoglia forma, della favola di Cappuccetto Rosso non può prescindere dal mettere in campo quegli archetipi junghiani rintracciabili tra le righe del racconto: il padre, pur assente, come autorità cui Cappuccetto si ribella; il bosco come zona di passaggio dalla fanciullezza all’età adulta; il lupo come emblema del buio, del pericolo, e così via. Una favola che, volendo rileggere in chiave psicanalitica, proprio favola non è (qui un intervento di Valter Zanardi sul tema).

Di questo denso e sotteso livello semantico si fa simbolo drammaturgico, nel lavoro di Campanale, la rosa rossa che attraversa l’intera pièce. Quella rosa con la quale il lupo adesca Cappuccetto per la prima volta, con la quale più avanti la convince a ballare – di sublime bellezza la danza tra i loro due corpi avvolti nei rispettivi, ampi mantelli –; la rosa che resta conficcata sulla porta della casa della nonna mentre l’animale “consuma il suo pasto” dopo averla trascinata all’interno per i capelli.

Cappuccetto sarà salvata, come lieto fine impone, ma quando esce dalla pancia del lupo non è la stessa: basta – espediente minimale ma decisivo e perciò semanticamente impattante – mostrarla senza più le sue trecce da bimbetta, con i lunghi capelli rossi sciolti per far capire che dietro quella porta è successo qualcosa che l’ha cambiata per sempre – del resto lo psicologo infantile Bruno Bettelheim in Il mondo incantato, rilettura in chiave psicanalitica delle più celebri fiabe del mondo, individua proprio la fuoriuscita della pancia del lupo come immagine simbolica del passaggio all’età adulta.
Quella rosa allora, che ora lei getta via con rabbia, era stata la tentazione, l’esca del malintenzionato, la chat dietro cui si cela il pericolo, la caramella dello sconosciuto.
La solarità del finale ne viene appena intaccata, il tempo necessario a comprendere.
Almeno per quel che riguarda il primo finale.

Proprio in merito al finale vale la pena ricordare che, nella versione più antica della fiaba, quella di Charles Perrault – apparsa nella raccolta di fiabe I racconti di mamma l’oca nel 1697 – il lieto fine non c’è; al suo posto una esplicita e decisamente perentoria morale.

«Da questa storia si impara che i bambini, e specialmente le giovanette carine, cortesi e di buona famiglia, fanno molto male a dare ascolto agli sconosciuti; e non è cosa strana se poi il Lupo ottiene la sua cena. Dico Lupo, perché non tutti i lupi sono della stessa sorta; ce n’è un tipo dall’apparenza encomiabile, che non è rumoroso, né odioso, né arrabbiato, ma mite, servizievole e gentile, che segue le giovani ragazze per strada e fino a casa loro. Guai! a chi non sa che questi lupi gentili sono, fra tali creature, le più pericolose!».

Ebbene, l’unico frangente parlato del lavoro è un monologo del lupo che, dopo aver divertito i bambini – e un po’ inquietato noi adulti – facendo le prove dei vari «…e per guardarti meglio… e per mangiarti meglio…», dice:

«Con me non ucciderete il buio, il vento, il temporale, l’uomo nero, i ragni pelosi, le creature della notte. Ucciderete solo un povero lupo affamato e dopo ricomincerete ad avere paura!».

L’animale abbattuto si rialza, è vivo ancora: non lui, forse, ma la paura sì, quella sarà sempre viva. In un secondo finale, che fa circolo con il prologo, riprende la fanfara dell’inizio, il ballo animalesco nel quale ora tutti, Cappuccetto, nonna e cacciatore inclusi sono coinvolti, come “lupizzati”.
Nell’entusiasmo della danza e della musica ci lascia così questo Cappuccetto: con un’allerta, un monito forse non ancora comprensibile per i bambini, estasiati da ciò che hanno visto, ma del quale certamente gli adulti potranno iniziare a spiegare il senso, al fine di evitare le tante rose rosse che potrebbero incontrare sul loro cammino.
Un allarme, però – ed è forse questo il pregio maggiore del lavoro – abilmente celato da una rappresentazione di reale bellezza e raffinatezza. Del resto: «Con un poco di zucchero, la pillola va giù!»

 

CAPPUCCETTO ROSSO

Compagnia La luna nel letto
Ass. Culturale Tra il dire e il fare
In coproduzione con Teatri di Bari e Cooperativa Crest
Con la preziosa collaborazione della Compagnia Eleina D.
Con il sostegno di scuola di danza ARTINSCENA

con i danzatori Eleina D. Claudia Cavalli, Erica Di Carlo, Francesco Lacatena, Marco Curci, Roberto Vitelli
drammaturgia, regia, scene e luci Michelangelo Campanale
coreografie Vito Cassano
assistente alla regia Annarita De Michele
costumi Maria Pascale
video Leandro Summo