LEONARDO DELFANTI e ANGELA FORTI | TESPI Festival di Teatro Sociale sta per volgere al termine. In piazza della Repubblica a Jesi, gli ultimi artisti si salutano e si scambiano numeri di telefono e abbracci. Davanti a noi il teatro Pergolesi, che ci ha ospitati nella sua splendida cornice per  DEsPRESSO di Michele Comite, ultimo evento della rassegna teatrale. È ora di tornare a casa.

Abbiamo parlato molto tra di noi, al convegno e al bar, ci siamo confrontati e, fortunatamente, andiamo via con più domande che risposte.
Che cos’è il teatro sociale? La definizione, poetica, che più ci è piaciuta è “teatro di resistenza”. È quindi alla resistenza che pensiamo vedendo, esattamente all’altro capo della piazza, un banchetto di raccolta firme della Lega. La stessa piazza che si affaccia sul teatro, il teatro che ha ospitato i dibattiti e gli eventi del festival, la mostra fotografica Lo sguardo innamorato di Letizia Morini e gli incontri formativi della Casa dello Spettatore.

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Oggi l’Italia è attraversata dal dibattito sul diverso in tutte le sue forme, sociali, economiche, etniche e abili.
TESPI Festival si inserisce in questa cornice: è un festival di resilienza, di osservazione del presente e costruzione del futuro. Per questo Simone Guerro vuole dichiarare a più riprese che la parola sarà data al sociale per il sociale.
Abbiamo assistito a spettacoli di teatro per ragazzi, teatro integrato, teatro non prettamente sociale ma che di sociale parla, eccome. Abbiamo visto e preso parte a opere di formazione per giovani scolari e per operatori del settore sociale. Una parola ci è rimasta dentro: ascolto. Dobbiamo imparare ad ascoltare le istanze del diverso, dell’altro per capire quello che, nel prossimo futuro, saremo.

La dimensione comunitaria richiesta a un festival come questo è stata, purtroppo, un po’ dispersiva, complice la frammentazione degli eventi tra le tre città dell’entroterra marchigiano: Jesi, San Marcello e Chiaravalle; complice il dibattito che è stato una grande occasione per offrire spunti ma che non ha avuto modo di approfondirli.

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Ecco allora che pensiamo ancora al teatro come arte pubblica, alle realtà del territorio nazionale che portano avanti un discorso profondo di integrazione, mentre prendiamo il caffè e, dall’altro lato della piazza, i dimostranti della Lega raccolgono firme.
Pensiamo, con una nota di dolcezza, a quella ragazza normodotata che dice di aver potuto trovare la propria disabilità nascosta, al termine del workshop con Michele Comite.

Sono tanti i modi che abbiamo per fare rete, per imporre la nostra presenza, secondo l’augurio di Chiara Bersani. Esserci, prima di tutto, prendere parte a ciò che in prima istanza ci riguarda non tanto come “gente di teatro”, abitanti di quel condominio teatrale di cui si è parlato nel convegno, ma in quanto uomini, prima di tutto, con bisogni e necessità.
“Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”. L’abbiamo affisso all’edicola della piazza, a chiare lettere, tra i bambini, i leghisti e i clienti più o meno abituali del bar.
Forse è questo fare teatro, quel teatro di cui abbiamo tanto discusso: ascolto e comunità, al centro di una piazza.