MARGHERITA SCALISE | C’era una volta una fiaba, ma soprattutto c’è ancora: Fabrizio Arcuri dirige due monologhi, accoppiati nella stessa serata, fino al 10 marzo al PACTA dei Teatri Salone di via Ulisse Dini, all’interno del Progetto DonneTeatroDiritti. Gli spettacoli, indipendenti tra loro ma con diversi punti in comune, sono La chiave dell’ascensore di Àgota Kristóf e Max Gericke di Manfred Karge.

Chiacchierando con il regista, ci svela come i due spettacoli siano nati entrambi nel 2017, indipendentemente l’uno dall’altro ma seguendo un filo rosso di ricerca sulle riscritture contemporanee delle fiabe classiche. Fabrizio Arcuri continua infatti un percorso iniziato con Cenerentola/Pinocchio da Joël Pommerat (qui la recensione per PAC di Matteo Brighenti), e incontra ora due agganci con le celebri Barbablù di Perrault e Biancaneve dei Grimm. Le fiabe sono da sempre un modo per raccontare una tragedia travestendola e rielaborandola: offrono cioè al lettore (o spettatore) la possibilità di rispecchiarsi e di inserirsi come “personaggio alla seconda” della storia.

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Anna Paola Vellaccio in La chiave dell’ascensore

La chiave dell’ascensore, dal racconto di Ágota Kristóf, inizia con la lunga fiaba di una castellana che aspetta fino alla morte il ritorno di un principe straniero che le si era promesso. Ma la protagonista dello spettacolo, al termine del racconto, si rivolge al pubblico per raccontare la propria, di storia: ogni sera lei attende il ritorno del proprio amato marito, che rincasa dal lavoro in città. Pian piano veniamo a conoscenza dell’intera storia in cui, attraverso azioni motivate dall’amore per lei e la preservazione della loro felicità – ma radicate in gelosia e possesso –, il marito rinchiude la donna in casa (possedendo, come Barbablù, l’unica chiave di accesso), per poi, attraverso operazioni chirurgiche, toglierle l’uso delle gambe, dell’udito, della vista. Arrivato alla eliminazione della voce, la protagonista si ribella, per poter continuare a urlare la sua condizione.
(A questo link  un’ulteriore sguardo sullo spettacolo di Renzo Francabandera e qui il testo di Àgota Kristóf)

maxgericke

Max Gericke è, invece, la storia (vera) di una Biancaneve rovesciata: Ella Gericke si ritrova a vent’anni vedova, nella Germania prenazista. Per non perdere il posto di lavoro del marito gruista, decide di travestirsi da uomo, seppellendo il marito sotto il proprio nome e continuando un’esistenza costantemente sbilanciata tra l’apparire uomo e l’essere donna.
Biancaneve è più volte citata nel testo di Manfred Karge, che non a caso si rifà a una delle fiabe scritte dai Grimm nel periodo di formazione dell’identità nazionale tedesca (a questo link potete trovare la storia non ridotta e piuttosto cruenta di Biancaneve e i Sette Nani). Karge racconta la storia personale di Ella intrecciandola con le vicende di trent’anni di storia tedesca, lasciando compenetrare tra loro le contraddizioni della vita personale di lei con quelle della Storia.

L’identità è uno dei cardini su cui si imperniano entrambe le storie: la protagonista de La chiave dell’ascensore sacrifica completamente la propria persona a un amore spassionato verso il marito, che man mano si trasforma e la trasforma. Gli splendidi capelli, simbolo per lei del favolistico legame coniugale, vengono strappati, in una perdita fisica e psichica della propria identità.
Anche Ella Gericke sacrifica la propria identità, seppur volontariamente, diventando pubblicamente uomo e ritrovandosi in segreto a fare i conti con i propri desideri di maternità e di resa. Una sovrapposizione delle identità rappresentata simbolicamente dalla sovrapposizione di abiti che durante lo spettacolo la protagonista indossa – pantaloni, costume da Biancaneve, tutone da operaio. L’identità di Ella, che si autodefinisce «bastardino», si rispecchia nell’identità tedesca: la donna in bilico tra maschile e femminile, la Germania in bilico tra nazismo e comunismo.
Non a caso, dunque, in entrambe le storie è ricorrente la presenza di uno specchio: il confrontarsi con il proprio cambiamento fisico permette a entrambe le donne di porre veramente a se stesse la domanda: “chi sono diventata?”.

I due spettacoli hanno un focus specifico sulla forma, pur presentando due impianti estetici completamente diversi. Se ne La chiave dell’ascensore ci ritroviamo davanti a un quadro quasi installativo, dove un’inquadratura nera incornicia uno spazio scenico abitato dalla corposità dei tagli di luce in un ambiente pieno di fumo, la scena di Max Gericke si riduce alla presenza di una poltrona, un giradischi e un telo di proiezione. In questo secondo caso, la ricerca formale si concentra sullo sforo del passato di lei –intrecciato con la Storia tedesca – raccontato attraverso il video; la divisione in quadri del testo si palesa sulla scena attraverso la proiezione di un enorme libro che si sfoglia, come l’incipit di un cartone animato disneyano. Ne La chiave dell’ascensore, invece, il richiamo fiabesco torna nella sonorità riverberata della voce della donna che fa pensare agli audiolibri di una volta, così come la poesia del vento che muove i suoi lunghi capelli biondi richiama un tardo e sognante Maurice Denis.

I due spettacoli, pur avendo come protagoniste donne e vicende con problematiche attuali legate al femminile contemporaneo, non sfociano mai nel retorico: Fabrizio Arcuri lascia che siano i testi di partenza a parlare, senza calcare la mano sulle tematiche della violenza di genere o della odierna condizione femminile sul lavoro. Grazie a questo passo indietro, la scena può veramente dialogare con lo spettatore, chiamato a elaborare un punto di vista, un giudizio personale su quanto accade.

 

LA CHIAVE DELL’ASCENSORE
di Ágota Kristóf

traduzione di Elisabetta Rasy
con Anna Paola Vellaccio
regia Fabrizio Arcuri
assistente in scena Edoardo De Piccoli
assistente alla regia Francesca Zerilli
assistente alla produzione Marilisa D’Amico
cura Giulia Basel
foto di scena Roberta Verzella
grafica Antonio Stella
una coproduzione Florian Metateatro/Accademia degli Artefatti.

 

MAX GERICKE
(La maggior parte della vita è passata, meno male)
di Manfred Karge

traduzione Walter Le Moli
titolo originale Jacke Wie Hose
con Angela Malfitano
regia Fabrizio Arcuri
set video Lorenzo Letizia
assistente alla regia Francesca Zerrilli
ufficio stampa Silvia Mergiotti
assistenza Rossella Giammarinaro
produzione Tra un Atto e l’altro e Accademia Degli Artefatti
in collaborazione con Ert – Emilia Romagna Teatro Fondazione
con il sostegno della Regione Emilia Romagna
Si ringrazia il Teatro di Roma e Studio Spectru