ALICE CAPOZZA | Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Marcello Prayer e Francesco Niccolini, lo stesso gruppo creativo che ha dato vita, nel 2016, all’adattamento teatrale de I Duellanti di Conrad, si cimenta con coraggio nella resa sulla scena del capolavoro letterario El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha di Miguel de Cervantes, in scena al Teatro della Pergola di Firenze, per una produzione di Fondazione Teatro della Toscana e Teatro Nuovo.
La cornice drammaturgica, scegliendo gli episodi più significativi, rende giustizia a una pietra miliare della letteratura mondiale. Le due ore di spettacolo scorrono con la piacevolezza di una storia eterna, narrata con maestria da tutti gli interpreti: Alessio Boni nei panni di un energico e sognante Don Chisciotte; Serra Yilmaz, un Sancho Panza en travestì non solo credibile, ma perfetto contraltare comico, terreno e popolare del cavaliere errante; Marcello Prayer e tutta la compagnia, diretta dal collettivo capeggiato da Aldorasi – Francesco Meoni, Pietro Faiella, Liliana Massari, Elena Nico, oltre a Nicolò Diana, burattinaio del fantoccio Ronzinante.

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Foto Lucia de Luise

La prima e l’ultima lotta di Don Chiosciotte è con la morte, l’unica che non si possa vincere. Ma se non si può battere la dea dalla falce nera, si può morir pugnando in nome dei propri sogni: proteggere gli umili dalla protervia dei forti, liberar le nobil dame dai malefici, difender l’onore e la giustizia universale. Non servono dodici lune, bastano un paio d’ore concesse a Don Alonso Chisciano per divenire Don Chisciotte, pronto ad inseguire la sua morte gloriosa. Ed ecco la scena, il teatro, la finzione magica. «Il resto è silenzio» come per Amleto. Così hanno inizio la avventure dell’hidalgo.

Follia del delirium mortis? «Sono pazzo solo fra la tramontana e il maestrale. Quando soffia da scirocco distinguo un falco da un falcetto» lucidamente affermava in bilico sulla follia Amleto, lasciando i suoi interlocutori nel dubbio sulla veridicità della sua pazzia. Libera nos a malo, dunque: bruciare i libri di cavalleria, poemi epici maledetti che gli hanno riempito la testa di incantesimi: Orlando Furioso, Gerusalemme Liberata, Chanson de Roland – in onore della miriade di citazioni in parodia dell’originale letterario. Veder cose che non ci sono – Belzebù, Sacripante, maghi malefici – è frutto di una mente delirante? Oppure ingenua, visionaria, ideale? Questo antieroe è destinato inevitabilmente a perdere, in una visione etica e poetica delle battaglie ideali, umile e tenace segno di resistenza dei sogni, contro la rassegnazione dei vinti, bigotti e miseri.

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foto di Filippo Manzini

«Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi» diceva la volpe ne Il Piccolo Principe. Così si dispone il pubblico con occhi in grado di vedere oltre la finzione teatrale. Lo spazio lasciato all’immaginazione è finalmente ampio per far riaffiorare la fantasticheria spontanea e disinteressata dei bambini, come quadri pitturati che sono leva di sogno e riflessione. Non a caso i riferimenti al teatro di figura, dalle scenografie agli artifici meccanici, sono moltissimi. In particolare gli accostamenti all’opera dei Pupi Siciliani: tempio di tutti gli archetipi teatrali, espressione dello spirito epico che anima con ironia e fantasia la chanson de geste, anello di congiunzione tra ardite e nobili imprese e tradizione popolare. Anche se lo spettatore, restando a bocca aperta, non ha dubbio alcuno che le marionette sian fatte di legno e fili, che i loro arti si muovano meccanicamente per mano dei pupari, le battaglie invisibili per le quali lottano sono concrete nel cuore.

Colpisce l’efficacia delle numerose macchine di scena realizzate con fine artigianato teatrale “alla vecchia maniera” da Massimo Troncanetti. Tutto è finto, artefatto, immaginativo, non naturalistico, con un sapore onirico e fiabesco di invenzione surreale: il Re Felipe, le grandi pale dei mulini, il Cavaliere degli Specchi. Ricordano i grandi carri colorati e sacrileghi del Carnevale di Viareggio. Su tutti spicca il fedele cavallo Ronzinante, a tutti gli effetti un personaggio della narrazione che partecipa e coinvolge: pur essendo un’artefatta costruzione, declina emozioni e atteggiamenti degni di un originale in carne e ossa.

Ci appare del tutto coerente l’esaltazione della finzione nella resa di un romanzo dove il confine tra il reale e l’immaginario è labile e ingannevole. Son tutti diabolici incantesimi quelli che mostrano ciò che non c’è al povero protagonista di Cervantes, fino a immaginare platonicamente l’amore «perchè non esiste cavaliere errante senza una dama da amare». La contraffazione è tale da non mostrare mai Dulcinea del Toboso, figura onirica che, perciò, non può avere fattezze umane. La dama è rappresentata per simboli di bellezza: la veste, la voce suadente, l’ombra sinuosa sul fondale, e infine solo gli immensi occhi dai colori sgargianti in un viaggio psichedelico fluorescente in fondo alla grotta di Montesinos, suggestiva citazione del teatro nero.

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Se da una parte scatena ilarità la dinamica ripetuta delle vicende di Don Chisciotte – pare quasi un antico Willy il coyote – il suo atteggiamento generoso e ostinato fa anche tenerezza. Chisciotte guarda il mondo che lo circonda con ingenuità fanciullesca, pronto a tutto per tener fede all’onore e alle proprie convinzioni. Ingannato, deriso da chi lo crede pazzo, guardato con condiscendenza malevola  per aver scombinato l’ordine costituito con la forza dell’utopia, lo sentiamo affine al prode spadaccino Cyrano: «Crimini? L’onore dei cavalieri erranti è al di sopra della vostra giustizia!».
La verità è che abbiamo un gran bisogno di idealisti sognatori capaci di poesia, oggi come al tempo di Cervantes: «In cuore abbiamo tutti un Cavaliere pieno di coraggio, pronto a rimettersi sempre in viaggio» come nella filastrocca di Rodari.

Opposto, e completamento alla spinta alta e sognante di Don Chisciotte, è l’azzeccatissima Yilmaz nei panni dello scudiero Sancho Panza: contadino analfabeta, concentrato sulla concretezza della vita, dall’incerta parlata da straniero. Buffa nel suo vestito d’asino, che regge davanti a sé come fosse una pancia posticcia, con i capelli turchini, ha la battuta sempre pronta a smontare la follia trasfigurante del cavaliere. Con grande naturalezza, fisica e interpretativa, Serra Yilmaz porta in scena la comicità dell’umile compagno di ventura, sempre in cerca di soldi e di cibo, ma anche la generosità del fedele amico, genuino e sincero, capace di sognare con lui.

Don-Chisciotte_29-387x580La recitazione è generosa, sopra le righe, con un ritmo sostenuto. Boni, dà spessore a un personaggio complesso e delicato senza rinunciare alla teatralità che caratterizza questo adattamento: si destreggia tra la declamazione in versi delle gesta eroiche, i momenti di verità tenera e profonda, e passaggi di riflessione dove sembriamo scorgere le rughe delle delusioni della vita, delle cadute dolorose (del personaggio e dell’attore).
Tutto il gruppo – di cui gran parte proviene dalla formazione mimica di Orazio Costa – è ben affiatato e lavora nella coralità, dimostrando una profonda sensibilità comune.
Fatta eccezione per i due protagonisti, tutti interpretano più ruoli, femminili e maschili indifferentemente; si prestano a scene di coro nei frammenti di testo letterario recitato fedelmente; fanno da manovratori a vista delle numerose rutilanti macchine teatrali.
La prossemica della scena è ordinata e a volte statica, ricordando ancora una volta il teatro di figura da cui prende a prestito il movimento stilizzato e simbolico. Il protagonismo degli oggetti e degli attori, contrasta con la semplicità dei fondali, per lo più teli illuminati di colori non naturalistici, che vanno a sottolineare la dimensione onirica grazie alle luci di Davide Scognamiglio.
La musica di Francesco Forni accompagna con discrezione lo spettacolo in modo calibrato, lasciando molte scene spoglie, realizzata con strumenti semplici, chitarre pizzicate e leggere percussioni; spicca il canto di voce nuda nelle scene di sconfitta e i suoni ovattati e delicatissimi per l’onirico incontro d’amore con Dulcinea.

Don-Chisciotte_28-387x580Il secondo atto, come del resto anche il secondo libro del romanzo, è più filosofico, più scuro e amaro. Nella efficace riduzione drammaturgica si è scelto di concentrare la ferita mortale della delusione di Don Chisciotte nella burla dei Duchi, insulsi nobili annoiati che imbastiscono ai danni dei due viandanti una crudele e rocambolesca messinscena. Vistosi costumi e ridicole parrucche – a sottolineare la loro opulenza e falsità d’animo, in contrasto con la semplicità delle vesti degli altri personaggi – oltre a evidenti storture fisiche che li rendono inquietanti.
Per gli sciocchi, vuoti, miseri Duchi la loro è un burla, uno scherzo divertente e sadico, ma per l’onestà fanciullesca di Chisciotte la finzione è realtà e come tale ferisce a morte. Questa è l’unica vera sconfitta. Il cavaliere errante, ormai battuto, non può che allontanare per sempre il suo compagno di ventura Ronzinante, in una scena struggente, per incamminarsi verso la morte che lo attende.

La lunga serie di episodi dell’originale letterario è reso in teatro con un arco narrativo chiuso che fa coincidere l’apertura con la calata del sipario, quasi a dirci che tutto ciò che abbiamo visto altro non è che sogno. Don Chisciotte non muore della febbre che lo colpisce, ma di cattiveria e disillusione, dello scherzo sadico che il reale gioca alla fantasia, del frantumarsi dell’utopia contro un muro d’odio. Non abiura sul letto di morte – gradito tradimento dell’originale romanzesco –, non rinnega la propria natura di cavaliere errante, la morte porta via con sé il suo onore intatto: «il problema non è morire, il problema è smettere di sognare».

 

DON CHISCIOTTE
adattamento Francesco Niccolini
liberamente ispirato al romanzo di Miguel de Cervantes Saavedra
drammaturgia Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Marcello Prayer e Francesco Niccolini
con Alessio Boni, Serra Yilmaz, Marcello Prayer, Francesco Meoni, Pietro Faiella, Liliana Massari, Elena Nico
ronzinante Nicolò Diana
scene Massimo Troncanetti
costumi Francesco Esposito
luci Davide Scognamiglio
musiche Francesco Forni
regia Alessio Boni, Roberto Aldorasi e Marcello Prayer
produzione Nuovo Teatro, Fondazione Teatro della Toscana
foto di scena Filippo Manzini

Teatro della Pergola, Firenze
19 marzo 2019