RENZO FRANCABANDERA e ELENA SCOLARI | ES: L’ultima automobile in scena che io ricordi è quella di Lolita di Ronconi, nel 2001. Era ovviamente grande, fuori scala, era un oggettone simbolo dei viaggi sinuosi che la ragazzina e l’adulto Humbert compiono andando verso la propria squallida dissoluzione. In un senso ben più violento anche la Polo grigia che a un certo punto compare sul palco in The repetition – Histoire(s) du théâtre (I) è il luogo dove si consuma l’atto di cancellazione di un essere umano.

RF: Io me ne ricordo un paio recenti invece. Legate per fortuna a ricordi divertenti: Philippe Quesne e Generazione Disagio, dove le auto erano luoghi di incontro e mistero, strumenti di viaggio non solo fisico ma anche e soprattutto verso un altrove della mente. Questa invece è una vicenda più pasoliniana, come ho pensato uscendo da teatro e come ha fulmineamente ricordato anche Diego Vincenti all’indomani della prima al Piccolo Teatro di Milano. Andrei ai crudi fatti, se sei d’accordo.

ES: Nel 2012 Ihsane Jarfi, trentenne belga di origine magrebina, muore per mano di tre balordi assassini. Si trova fuori da un locale gay a Liegi, sale senza tanto pensare sulla Polo con quattro uomini su di giri che gli chiedono dove trovare ragazze da rimorchiare, mentre si spostano dal centro capiscono da una battuta sciocca che Jarfi è omosessuale e lo picchiano, fino a stordirlo. Fermeranno la macchina, lo metteranno ferito nel baule e lo abbandoneranno in un campo, nudo, ancora vivo. Morirà dopo alcune ore.
In quell’auto si consuma un assassinio, che più di altri però appare un volontario e insensato annientamento di una persona, come un diversivo, un modo assurdo per accendere una serata.
Mi ha colpito che, nonostante le circostanze, nessuno dei personaggi usi mai la parola “omofobia”. Anche se sappiamo che nel processo è stata considerata un’aggravante. Menomale, dico io. Ma so che mi ha fatto specie perché in Italia abbiamo l’inspiegabile necessità di circoscrivere gli omicidi definendoli secondo la categoria delle vittime: il femminicidio, l’omicidio stradale, quello di matrice omofoba, appunto… Lo hai notato anche tu?

RF: La necessità di incasellare pertiene a sistemi di conoscenza talvolta superati dalla storia, ma non dall’analfabetismo di ritorno. La schematizzazione della natura, quella delle specie viventi ad esempio, che aiuta a conoscere da dove veniamo, è comprensibile. Cerca un ordine dell’universo, quasi le tracce di un’intenzione superiore. Ma quella del legislatore contemporaneo sembra un barocco esercizio di incasellare l’indifferenza, aiutare in un esercizio umiliante di autodefinizione di presunta minorità: la colpa di essere donna, gay. Di dovertene giustificare, quasi. Un percorso all’indietro dove in ultima analisi lo sbaglio parte dalla vittima. Come nel caso del nostro giovane belga, raccontato in scena. Una scena spoglia e che all’occorrenza accoglie piccoli angoli di stanze, di locali, di teatro. Nel teatro.

ES: Facciamo un passo indietro per spiegare come arriviamo a sapere di questo fatto: come accade nel bellissimo Five easy pieces, Milo Rau ci mostra una sorta di casting per introdurre chi vedremo agire in scena. Tre attori professionisti (Sara de Bosschere, Sébastien Foucault e Johan Leysen) intervistano e “provinano” tre attori dilettanti (Tom Adjibi, Suzy Cocco, Fabian Leenders), fanno domande su di loro, sulla professione, su cosa pensano sia il teatro. Nel mentre scorrono sul grande schermo al centro del palco immagini di Liegi, Leenders ci dice che in quegli anni c’erano tantissimi disoccupati in Belgio per via della crisi che causò la chiusura di tutti gli altiforni. Salvo chi riusciva a trovare lavoro temporaneo come comparsa nei film dei fratelli Dardenne, praticamente un belga su due.

RF: C’è un’ironia iniziale in questi provini che, man mano che il tutto procede, fa poi arrivare più forte il cazzotto nello stomaco. Tanto è finto-allegro l’inizio e dà allegria nella sua coralità, tanto è fintamente tragico il finale e dà dolore nella solitudine di quel corpo che resta lì e rimane in mente. Questa cosa di Rau è pazzesca: tanto caratterizza attori, storie, vicende, che quando rivedi lo stesso attore che nello spettacolo prima faceva il cattivo, ancora lo percepisci come tale. Si capisce che è tutto finto. È un continuo scrollarsi di dosso la realtà, abbrancandola poi con violenza. Eppure questo meccanismo alla fine cristallizza uno spazio epico della mimesi.

ES: Secondo te cosa fa di The repetition un grande spettacolo? Personalmente credo che sia la capacità, lucidissima, di mettere le mani su un fatto tragico di cronaca rendendo questa scelta un’interrogazione al teatro e a noi su quali sono i confini, su cosa sia rappresentazione, sulla responsabilità dei singoli, su quanto siamo disposti a vedere, indagando i meccanismi di reazione. Ci butta addosso una finzione ricostruita quasi come in un cold case e riesce a intersecarla con il monologo dello spettro del padre di Amleto, con la dolorosa Canzone del gelo dal King Arthur di Purcell e con la splendida poesia di Wislawa Szymborska Impressioni teatrali.
Io rimango incantata di fronte all’intelligenza che sa riempire – come se in quel momento non si potesse dire altro – il senso delle presenze in scena posando loro sopra le parole, perfette, di altre gioielli teatrali e poetici. Il saper trovare questi rimandi mi stordisce. Di felicità.

 

Per me l’atto più importante della tragedia è il sesto:
il risorgere dalle battaglie della scena,
l’aggiustare le parrucche, le vesti,
l’estrarre il coltello dal petto,
il togliere il cappio dal collo,
l’allinearsi tra i vivi
con la faccia al pubblico.

Inchini individuali e collettivi:
la mano bianca sulla ferita al cuore,
la riverenza della suicida,
il piegarsi della testa mozzata.

Inchini in coppia:
la rabbia porge il braccio alla mitezza,
la vittima guarda beata gli occhi del carnefice,
il ribelle cammina senza rancore a fianco del tiranno.

Il calpestare l’eternità con la punta della scarpina dorata.
Lo scacciare le morali con le falde del cappello.
L’incorreggibile intento di ricominciare domani da capo.

L’entrare in fila indiana di morti già da un pezzo,
e cioè negli atti terzo, quarto, e tra gli atti.
Il miracoloso ritorno di quelli spariti senza tracce.
Il pensiero che abbiano atteso pazienti dietro le quinte,
senza togliersi il costume,
senza levarsi il trucco,
mi commuove più delle tirate della tragedia.

Ma davvero sublime è il calare del sipario
e quello che si vede ancora nella bassa fessura:
ecco, qui una mano si affretta a prendere un fiore,
là un’altra afferra la spada abbandonata.
Solo allora una terza, invisibile,
fa il suo dovere
e mi stringe alla gola.

RF: Caspita, andiamo di poesia. Sono in un periodo della vita poi in cui la poesia inizia a comunicarmi qualcosa. Sarà grave? Suicidio poetico? Chissà se c’è l’aggravante. E comunque queste parole di Wislawa Szymborska raccontano un profondo esistenziale della rappresentazione che questo regista ha, come un tocco magico. Non ho ancora visto cose sue brutte, cervellotiche, criptiche e incomunicative. E allora penso a tutti quelli che dicono: il teatro non lo capisco. Pensando alle ragioni profonde per cui questo si dà, vedendo un maestro, capisco la loro ragione nel denunciare lo scollamento che in un certo tempo della storia si è dato fra un certo pubblico e un certo teatro.
Rau è un grande ricucitore di questa ferita fra linguaggio e possibili destinatari. Ma voglio dire che questo aspetto si riconosce, per esempio, anche nella logica con cui Rau usa il video: sempre presente ma mai soverchiante, volgare. È un di cui. Come a tratti lo è la scena. Tu vedi gli attori nudi ma questa corporeità umanissima e profonda in un tratto sparisce nel pathos dei volti che vivono il dramma, vedi i giovani al bar che si baciano (dal vivo) mentre il video dietro racconta una festa di cui sono parte ma sempre simbolica, mai reale. Ma in cui si baciano lo stesso. E cogli la differenza dell’effetto. La potenza del carne e ossa del teatro.
La stessa cosa che fa per altri versi Lola Arias. Tanto giochi a non farlo sembrare vero, tanto più (se sei bravo) quella grandissima verità, poetica, drammatica, racchiusa nei versi che hai fatto bene a riportare, ci arriva.

ES: Se entrare in scena è cosa difficile, uscirne è ancora peggio.
Poi c’è la struggente intimità di due anziani nudi, i genitori di Ihsane, che provano a tranquillizzarsi a vicenda per la sparizione del figlio, prima di sapere della sua fine. E il ballo di Fabien col muletto tra la nebbia finta mentre Adjibi canta Purcell, a sublimare la sofferenza e la fatica del lavoro con l’arte.
Rau, come sempre, interseca più livelli narrativi, riprende e proietta le scene che noi vediamo in diretta “live”, elevando a potenza il concetto di rappresentazione.
Nell’interpretazione che Schopenhauer dà di Platone, sostiene che la speciale conoscenza grazie alla quale contempliamo la vera essenza del mondo sia l’arte: il genio umano concepisce con l’osservazione e nell’opera riproduce le idee eterne, cioè tutto ciò che permane nei fenomeni del mondo, violenza e irrazionalità incluse. L’arte ferma nell’opera le cose del mondo, altrimenti trascinate dalla corrente, e le offre – nitide – alla nostra riflessione, perché noi le osserviamo, slegate dalle circostanze in cui sono avvenute, affinché questo muova la nostra volontà.
Rau lavora in questa direzione: ripete (The repetition, appunto) la realtà – come anche nella ricostruzione dello studio radiofonico ruandese in Hate Radio , la fissa nel teatro per avvicinarsi alla più profonda e vera conoscenza del mondo. Soprattutto del nero del mondo.

La spiegazione del senso del teatro secondo Adjibi è dura e al tempo stesso romantica: cita l’esempio del cappio che scende dal graticcio, l’attore dichiara che salirà sulla sedia per poi farla cadere, e lascia che siano gli spettatori a decidere se morirà o no. Bè, io per un momento il dubbio se lanciarmi a salvarlo ce lo ho avuto. E mi pare quanto di più forte un regista possa fare.

 

The Repetition. Histoire(s) du théâtre (I)

ideato e diretto da Milo Rau
testo a cura di Milo Rau e della compagnia
drammaturgia e ricerche Eva-Maria Bertschy
scene e costumi Anton Lukas
video Maxime Jennes, Dimitri Petrovic
suono Jens Baudisch
luci Jurgen Kolb
con Sara de Bosschere, Sébastien Foucault, Johan Leysen, Tom Adjibi, Suzy Cocco, Fabian Leenders
production management Mascha Euchner-Martinez, Eva-Karen Tittmann
team tecnico per la tournée: camera Jim Goossens-Bara, Maxime Jennes, Moritz von Dungern; luciSylvain Faye, Sebastian König; suono Pierre-Olivier Boulant, Jens Baudisch; sovratitoli François Pacco
tour manager Mascha Euchner-Martinez
produzione International Institute of Political Murder (IIPM), Création Studio Théâtre National Wallonie-Bruxelles con il supporto di Hauptstadtkulturfonds Berlin, Pro Helvetia, Ernst Göhner Stiftung e Kulturförderung Kanton St.Gallen
coproduzione Kunstenfestivaldesarts, NTGent, le Théâtre Vidy-Lausanne, le Théâtre Nanterre-Amandiers, Tandem Scène Nationale Arras Douai, Schaubühne am Lehniner Platz Berlin, le Théâtre de Liège, Münchner Kammerspiele, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt a. M., Theater Chur, Gessnerallee Zürich, Romaeuropa Festival

Visto al Teatro Strehler di Milano l’8 maggio 2019

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