ILENA AMBROSIO | Un leitmotiv ha attraversato la XX edizione di Primavera dei teatri declinando variamente storie di madri e figli, di malattia e morte – pendant con lo scenario “autunnale” descritto su PAC da Elena Zeta Grimaldi. Certo, la complessità dei rapporti familiari e le dinamiche che nell’umano scatena il pensiero della morte sono materia quanto mai “succosa”. Tutto sta poi nel riuscire a trarne una drammaturgia convincente, corredata da una resa scenica efficace.

Risultato raggiunto a metà in Per il tuo bene, scritto e diretto da Pier Lorenzo Pisano (Premio Riccione – Tondelli 2017).
Un figlio (Edoardo Sorgente) torna a casa dopo tempo perché qualcosa sta succedendo. La malattia di qualcuno, pare. Un presagio triste incombe realizzandosi solo nel finale. Intanto, con questo ritorno, si innesca l’ordigno di dinamiche familiari mai risolte. Quelle sue con la madre (Laura Mazzi) e il fratello minore (Alessandro Bay Rossi), della madre con i figli, della madre con la nonna (sempre la Mazzi in una maternità al quadrato). Dinamiche “dette”, tra lieve drammaticità e intelligente humor, da personaggi che si narrano reciprocamente in terza persona, limitando il confronto diretto a discorsi superficiali, cadenzati da imbarazzati silenzi. Una densità verbale – un po’ “alla Calamaro” senza però riuscire a realizzare lo stesso affondo verticale nel senso delle parole – che trova il proprio riflesso in un impianto scenico (scene Giulia Carnevali, luci Vincenzo Bonaffini) ricercato e articolato, giocato su espedienti d’effetto e fortemente significanti.

I pannelli scorrevoli che, a mo’ di sipario, aprono porzioni sempre diverse del palcoscenico: un limite tra il mondo familiare e il fuori, abitato da personaggi che «non sono famiglia». La partitura luminosa e quella sonora che seguono la drammaturgia con scelte originalissime e raffinate. La composizione del movimento che scolpisce gli interpreti in tableaux nei quali la stessa posizione reciproca pare indicativa dei rapporti che li legano. I geniali costumi “trasformistici” della madre (di Raffaella Toni) che ne svelano l’indole da chioccia e un po’ egocentrica (vince su tutti la gonna che la trasforma in nonna!).
Tutto – parole, scena, anche i silenzi – comunica la difficoltà della relazione, l’incomunicabilità, il terrore di una tragedia imminente, l’affetto, in fine, che resta sempre e comunque ma che si dichiara, spesso, «quando è troppo tardi».

L’ammirevole cura estetica e l’altissimo livello della prova degli interpreti non compensano però la monotonia – in senso etimologico, s’intende – di una regia che pare faticare ad avere un proprio andamento, autonomo rispetto al testo, a sviluppare tridimensionalità drammaturgica, restando come appiattita sulle parole e invischiata in lungaggini che ne rallentano ulteriormente il ritmo. Il Pisano regista non riesce ad affrancarsi dal Pisano drammaturgo.
Un vero peccato visti i pregi indiscutibili di questo lavoro.

Dal contesto familiare a quello amicale con Aldilà di tutto scritto e interpretato da Chiara Stoppa e Valentina Picello.
Su un palo cinese posto al centro della scena Chiara racconta di Giovanna, amica d’infanzia ritrovata (è diventata un’artista circense, ecco perché il palo), della sua malattia e della vacanza in Croazia, che coinciderà con il suo ultimo mese di vita.
Giù dal palo e un anno dopo Chiara convince l’amica Valentina a un viaggio che le riporti lì, come in omaggio al ricordo di Giovanna. Gli elementi della trama non sono immediatamente chiari – aiuta il foglio di sala –  per cui, già un po’ confusi, ci ritroviamo immersi nel concitato e, a tratti, nevrastenico, rapporto tra le due.

2019-05-30 PDT aldila di tutto ATIT teatro ringhiera foto angelo maggio DSC00078
Angelo Maggio

Due personalità antitetiche – maniacale e con tendenze depressive Valentina, più leggera Chiara  – ben delineate dall’espressività e dal gesto, oltre che dalle scelte costumistiche: abitino femminile l’una, salopette e sneakers l’altra. Gli episodi vacanzieri mimati (pochi gli oggetti realmente presenti in scena), i divertenti battibecchi si alternano a riflessioni sulla vita, sulla morte, sul vivere morendo, ai ricordi di Giovanna, in un ritmo sostenuto e vivace.
Ma intanto si attende che accada qualcosa, che venga porto il capo del filo che tiene tutto. Un cane immaginario – introdotto da uno reale che attraversa la scena (ma perché?) – è personaggio deicisivo, smuove la tenerezza di Valentina, in qualche modo la sblocca e, nel momento in cui «abbraccia» Chiara, lei sente la presenza di Giovanna (un po’ troppo Ghost!). Nel finale, dopo il ricordo degli ultimi istanti di vita della ragazza, una citazione che è un invito ad affrontare la vita, e la morte con più «leggerezza» (come gli acrobati?).

Non si riesce a trovare organicità in questo lavoro, un collante che metta efficacemente insieme, in primis, gli elementi drammaturgici tra loro ma anche questi con quelli scenici e, specialmente, il tutto con una concreta riflessione sulla morte e sulla vita.

E si parla di morte, anche in Lo Psicopompo, scritto e diretto da Dario De Luca che debutta in casa, con grande emozione generale. Si parla di morte che è un po’ come parlare di vita se, come afferma Spinoza «quando l’uomo libero pensa alla morte, la sua è una meditazione sulla vita».
Rivendica proprio libertà la protagonista, libertà di scegliere di porre fine alla propria esistenza. Non per malattia, non per una sofferenza fisica né per un delirio della mente. Ma per scelta: «Io non cerco la morte come via di fuga, ma come fine». Contatta uno psicopompo (‘traghettatore di anime’ dal greco) che la assista nel suicidio, con distacco e professionalità; ma si ritrova davanti il figlio.

La coppia appare nel momento immediatamente successivo l’agnizione, nello sconvolgimento della detonazione. Ciò che verrà è un agire teatrale che «è mosso dall’ossessione di dare forma concreta all’impensabile della morte» dichiara De Luca. E si concretizza in un dialogo che sta a metà tra lo scontro familiare e la disquisizione filosofica, in cui l’ombra di una sciagura passata (ancora una morte per malattia), rivendicazioni, rancori si fanno spirale con il tentativo di sondare, di afferrare il senso di quello che è il nostro passaggio su questa terra.
Non risulta sempre fluido e calzante questo intreccio, a tratti un po’ forzate le “elevazioni all’universale”, ma i due interpreti riescono nel non facile compito di restare in equilibrio tra i piani, di non cedere a patetismi – pur nell’inteso sentimento della rappresentazione – né a pedanteria dialettica.

Lo spettatore, intanto,  è letteralmente immerso in questo dialogo. Il lavoro nasce, quasi site specific – sarà in scena al Napoli Teatro Festival in una versione scenicamente differente – all’interno dello splendido BoCs Art di Cosenza, la più grande area di residenza in Europa. Case/vetrine a due piani che sono spazio creativo e anche luogo di residenza per gli artisti.
Proprio in una di queste vetrine lo scorcio di un soggiorno: un divano, un tavolino con un giradischi, sul fondo una scala e una parete che riverbera, a ogni cambio di scena, di una differente tinta luminosa (di De Luca anche le luci). Qui si svolge l’azione che seguiamo con delle cuffie. Il suono curato da Hubert Westkemper ci è restituito nei minimi dettaglio, rotondo, avvolgente, a vantaggio anche della musica, elemento fondamentale della pièce. È come se si annullasse la distanza da quello spazio altro e definito, abitato dagli interpreti di fronte a noi, e ci si ritrovasse lì dentro, con loro. Un’operazione davvero magistrale.

Tali scelte scenotecniche “contemporanee” potrebbero, a primo acchito, sembrare ingiustificate per un lavoro che, giocato su codici “tradizionali” –  virgoletto con decisione, aborrendo tale categorizzazione – potrebbe essere messo in scena, senza perdere nulla, anche in un teatro.
Eppure, riflettendo su quel “senza perdere nulla” mi sono convinta che proprio questa immersione consente un rapporto ravvicinato e intimo con la parola di un testo che vuole parlare all’orecchio, per dire, quasi senza mediazioni, al sentire intimo di ciascuno, e pure all’intelletto che tenta di pensare e razionalizzare la morte, ma anche la delicata questione del suicidio assistito (come non pensare, a posteriori, al caso di Noa Pathoven). Una comunicazione a più livelli che rende Lo Psicopompo una riflessione intima ma insieme universale e politica.

 

PER IL TUO BENE

scritto e diretto da Pier Lorenzo Pisano
scene Giulia Carnevali
luci Vincenzo Bonaffini
costumi Raffaella Toni
musiche originali Mattia Persico
assistente alla regia Camilla Brison
con Alessandro Bay Rossi, Marco Cacciola, Laura Mazzi, Marina Occhionero, Edoardo Sorgente
direttore tecnico Robert John Resteghini
direttore di scena Marco Fieni
capo elettricista Vincenzo De Angelis
fonico Pietro Tirella
scene costruite nel Laboratorio di Emilia Romagna Teatro Fondazione
capo costruttore Gioacchino Gramolini
costruttori Marco Fieni (costruzioni in ferro), Sergio Puzzo, Riccardo Betti
scenografa decoratrice Lucia Bramati
immagine manifesto e grafica Marco Smacchia
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Arca Azzurra Produzioni e Riccione Teatro

ALDILÀ DI TUTTO

di e con Valentina Picello e Chiara Stoppa
drammaturgia Carlo Guasconi
supervisione Arturo Cirillo
assistente alla regia Lorenzo Ponte
scene e costumi Eleonora Rossi
disegno luci Alessandro Verazzi
scelte musicali Roberta Faiolo
produzione ATIR Teatro Ringhiera con il sostegno di NEXT 2018
si ringrazia il TeatroLaCucina/Olinda

LO PSICOPOMPO

scritto e diretto da Dario De Luca
con Milvia Marigliano e Dario De Luca
assistenza alla regia Gianluca Vetromilo
disegno luci Dario De Luca
suono Hubert Westkemper
programmazione Max-MSP Mattia Trabucchi
fonico Matteo Fausto Costabile
costumi e oggetti di scena Rita Zangari
organizzazione generale Settimio Pisano
produzione Scena Verticale
con il sostegno di Cosenza Cultura e di BoCs Art Residenze D’artista