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Disegno di Renzo Francabandera

ANTONIO CRETELLA | In un recente articolo Chiara Alessi parla dell'(est)etica degli anni ’10 del nuovo millennio utilizzando senza mezzi termini l’aggettivo ‘amorfo’ come sunto di un’epoca la cui attenzione è spostata o, per meglio dire, livellata alla pura cosalità della realtà senza la mediazione, costruttiva di senso, di un canone stilistico. Ovviamente ciò non significa che una forma non esista, in quanto la totale mancanza di questa risulterebbe nell’incapacità di comunicazione: ciò che rende amorfa l'(est)etica del presente è semmai l’irriflessività della forma stessa, uno standard comunicativo che ha reso il luogo di espressione massimo della creazione artistica un tecnicismo retorico di fruizione media. In questo senso l’amorfia è in realtà riconoscibile nella stragrande maggioranza di opere d’ingegno partorite dall’umanità: l’insignificanza ci ha risparmiato la tradizione di librettini scialbi pur di acclamato successo ai loro tempi, ma sostanzialmente di scarso o nessun contributo nell’evoluzione estetica della comunicazione umana, così come quadretti di maniera, architetture alla moda e musichette da accompagnamento. Tuttavia quel manierismo standardizzante non era negazione della forma quanto sua cristallizzazione nel sincero intendimento che essa fosse la massima espressione possibile, la fine dell’arte, cui seguiva per attrito e reazione, o per estremizzazione, la costruzione di forme antitetiche o ipermanieriste che giungevano al gioioso snaturamento dei presupposti. L’amorfia degli anni ’10, propaggine estrema e fiacca degli slanci vitali del postmoderno, è invece la passiva accettazione di una medietà stilistica che infetta l’atto creativo sin dalla gestazione come una malattia neonatale: la scrittura è il più delle volte trascrizione fonetica della quotidianità presunta, un antiverismo assuefatto e gelatinoso del previsto che trova la sua palestra ideale nei corsi di scrittura creativa e nelle rubriche dei consigli per giovani poeti, sostanziale anestesia dell’impensato che deraglia forzoso verso patetismi d’alta resa e scarsissimo sapore. Il ruolo del capitalismo estetico nella genesi e nel mantenimento della dittatura dello standard è lapalissianamente chiaro, quanto lo è il suo risvolto etico nella cecità verso i migliori mondi possibili.