RITA CIRRINCIONE | Quando il teatro di uno spettacolo è un luogo con una storia singolare, quasi una leggenda, narrarla non solo è necessario ma, come in questo caso, diventa organico allo spettacolo stesso.

Partiamo da Palermo per raggiungere il Teatro Andromeda a Santo Stefano Quisquina – circa cento chilometri di distanza – dove assisteremo a Ecuba messo in scena dalla Compagnia Teatro Iniziatico diretta da Angelo Tonelli. Per una sorta di segreta corrispondenza, il tragitto per raggiungere il centro agrigentino si rivelerà un vero e proprio viaggio iniziatico: a causa di interminabili lavori in corso per frane e viadotti crollati, percorrere la “scorrimento veloce” Palermo-Agrigento (detta anche strada della morte) è come percorrere una via crucis con stazioni sotto forma di semafori e di deviazioni che a decine intervallano il percorso e un’infinità di barriere stradali disseminate qua e là in modo confusivo e disorientante.

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Dopo oltre due ore, arriviamo a S. Stefano Quisquina. Ci dirigiamo a piedi verso il teatro percorrendo viottoli tra campi coltivati e tempietti, tra asini allo stato brado ed enormi sculture adagiate al suolo. Una torre-museo a pianta ottagonale spicca più in là, su una collinetta. Qui ogni cosa sembra avere una sua ragione di essere e una valenza simbolica ben precisa, in un dialogo armonico tra arte e paesaggio naturale. Arriviamo nella zona antistante il teatro: una monumentale maschera di pietra – i cui occhi e la cui bocca al solstizio d’estate vengono attraversati dai raggi del sole al tramonto – sembra posta a presidio del luogo.

Nato dalla mente visionaria e poetica di Lorenzo Reina, il Teatro Andromeda sorge sulla Rocca, un belvedere naturale a mille metri di altezza tra i monti Sicani, degradante verso il mar Mediterraneo che si scorge in lontananza. Nel racconto ormai mitologico della sua origine, sembra che un giorno di circa trent’anni fa, al tramonto, osservando il suo gregge in sosta in quel punto, Lorenzo abbia avuto la visione di un anfiteatro: nel pianoro naturale che dà sulla vallata, lo spazio scenico; nel terreno retrostante leggermente in declivio la cavea con i sedili. E così, sulla base di un suo progetto, pietra su pietra, incomincia a erigere un teatro dedicato alla costellazione di Andromeda: i sedili disposti in modo irregolare – due blocchi cubici di pietra sovrapposti e ruotati di 45° – rispecchiano esattamente le 108 stelle di quel frammento di cielo. Una stella per ogni posto a sedere. Seguirà tutto il complesso di opere che lo circondano che costituiscono la Fattoria dell’arte intitolata al padre Rocco, un unicum di natura e arte in continuo divenire in cui sembrano finalmente convivere due realtà che inizialmente gli apparivano inconciliabili: l’azienda agricola di famiglia e la sua attività di scultore e di promotore culturale.

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Foto Christian Reina

Si ha l’impressione di essere entrati in un mondo perfetto in cui tutto ha un ordine; il senso di abbandono e di caos di prima sembra lontano. Ma, ripensandoci, forse un nesso tra quei due mondi c’è; forse in questa terra abbandonata ci sono uomini che riescono a trarre ispirazione da una realtà che non c’è o che non piace, a immaginarne un’altra e, in una sorta di metamorfosi alchemica, a trasformare e dare valore all’abbandono, all’assenza o alla rovina. Pensiamo a Ludovico Corrao, che guardando oltre le macerie del Belìce, seppe dare un’anima a Gibellina Nuova, destinata a essere solo un ammasso di case senza storia, chiamando in soccorso l’arte e invitando artisti da tutto il mondo che l’hanno resa un laboratorio d’arte e di sperimentazione urbanistica. Pensiamo ad Antonio Presti che, dove prima scorreva il fiume Tusa, ormai una fiumara, ha creato Fiumara d’arte, parco en plein air di arte contemporanea.

Varchiamo la soglia del teatro – una sorta di porta dei leoni di Micene a misura d’uomo – e, in uno scenario che toglie il fiato, troviamo la compagnia di Angelo Tonelli intenta alle prove. Un po’ più indietro, discreto e in disparte, con il suo immancabile cappello, c’è lui, il pastore-scultore artefice di quel mondo, che assiste con attenzione e curiosità. Chi si aspetta di vedere un pastore rozzo e impacciato rimane deluso. Lorenzo Reina è un bell’uomo dal portamento fiero e dai modi disinvolti. Parla un italiano corretto e ricercato, con una leggera cadenza agrigentina e mostra una cultura eclettica e fuori dagli schemi che solo le formazioni libere e disordinate degli autodidatti hanno.

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Foto Giovanni Musumeci

Durante una breve conversazione, conoscendo l’ambiente provinciale siciliano, gli chiedo qual era, agli inizi, l’atteggiamento dei suoi concittadini nei confronti dei suoi progetti. Racconta che ha dovuto combattere la diffidenza su due fronti: quello dei compaesani, che quasi lo sbeffeggiavano per il suo perder tempo ed energie dietro l’arte, e quella del mondo accademico che snobbava le sue opere fuori da ogni canone architettonico. Finché nel 2018, con l’invito a partecipare alla XVI edizione della Biennale internazionale di Architettura di Venezia, “arriva la consacrazione”.

«È la prima volta che un pastore espone alla biennale di architettura – racconta. Direi proprio che ha vinto l’arte. Sette anni fa dissi di no a Vittorio Sgarbi che mi chiamò per partecipare alla Biennale: le mie asine dovevano partorire e poi c’era il teatro da finire. Così ho rinunciato, ma il destino mi ha dato una seconda opportunità».

Adesso il vento è cambiato e la realtà della Fattoria dell’arte è diventata il fiore all’occhiello di una comunità che Reina ha contribuito a risollevare culturalmente ed economicamente e che ogni anno attira artisti e visitatori da tutto il mondo.

Angelo Tonelli – ligure, come quasi tutta la sua compagnia – grecista tra i maggiori in Italia, regista teatrale, performer, è uno di questi: ha trovato nel Teatro Andromeda il luogo perfetto per mettere in scena le tragedie greche da lui tradotte e che da più di vent’anni rappresenta in chiave rituale. La sua ricerca artistica e la sua idea di teatro integrano l’impostazione junghiana sulla funzione catartica dell’esplorazione delle parti-ombra e della presa di coscienza delle passioni distruttive con «gli strumenti di consapevolezza sapienziale» che attingono a Eraclito, Empedocle e Platone: a suo dire, la psiche collettiva dell’uomo attuale, in piena deriva tecno-razionalistica, ha bisogno di ristabilire quel senso di appartenenza all’Uno-Tutto che ha perso.

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Foto Angela Carubia

La sua messinscena di Ecuba (con la co-regia di Susanna Salvi) è lontana da certi allestimenti che in passato hanno accostato la guerra di Troia a conflitti più recenti ed Ecuba a figure di donne contemporanee a cui la guerra non ha risparmiato né sofferenze né umiliazioni.

La tragedia si apre con l’ombra di Polidoro, il giovane figlio di Ecuba e di Priamo, che nel prologo preannuncia la richiesta del sacrificio propiziatorio della sorella Polissena sulla tomba di Achille, per favorire il ritorno degli Achei in patria. Troia è stata espugnata, Priamo è morto ed Ecuba, regina di Troia, è ridotta in schiavitù dai greci vincitori. Compiutosi il tragico destino della ragazza che va eroicamente incontro alla morte preferendola alla prigionia, davanti a Ecuba intenta a darle sepoltura viene portato il cadavere del giovane Polidoro restituito dal mare: è stato trucidato da Polimestore, re di Tracia, presso cui era ospite, per impossessarsi del suo tesoro. È il momento del dolore; è il momento della vendetta: nulla le è stato risparmiato; nulla sarà risparmiato all’assassino. Con il tacito consenso di Agamennone e l’aiuto delle donne troiane, l’anziana sovrana lo attira in una trappola e lo acceca. La tragedia si chiude con le tremende profezie che Polimestore, in preda a una furia inesorabile, lancia contro Ecuba e il capo acheo.

Tragedia del postumo, dei passaggi trasformativi, dei sentimenti estremi, in Ecuba tutto è già accaduto: la sofferenza, la violenza, la vendetta sono le conseguenze postume della guerra, sono cresciute nel terreno marcio lasciato da ogni conflitto dove ancora resistono la sopraffazione dei vincitori e la rapacità di coloro che con la guerra si ingrassano.

Nella messinscena Tonelli-Salvi, Ecuba (un’intensa Susanna Salvi) è affiancata da un personaggio-ombra, quasi un doppio (la danzatrice Annalisa Maggiani che ha curato anche le coreografie) che con i suoi movimenti scenici incarna, amplifica o distanzia il coacervo di emozioni che l’attraversano: l’orgoglio di regina, l’umiliazione della schiava, l’amore di madre, il dolore per la perdita dei figli, la rabbia e la forza distruttrice nel momento della vendetta. L’espediente registico infonde dinamicità alla figura di Ecuba, impietrita dagli eventi catastrofici che la incalzano, e rende la complessità dei sentimenti contrastanti che la abitano. A dare respiro e tregua in tre momenti topici della tragedia, le melodie (con i testi in greco antico tratti dall’opera originale di Euripide) musicate e cantate dalla suggestiva voce di Paola Polito: diffondendosi nella campagna antica circostante, sembra davvero di assistere alla riattualizzazione di quel teatro delle origini di cui questa terra conserva testimonianze incarnate memorie architettoniche. 

 

ECUBA
Liberamente tratta dall’omonima tragedia di Euripide – Traduzione di Angelo Tonelli
Associazione Culturale Arthena – Compagnia Teatro Iniziatico diretta da Angelo Tonelli
regia Angelo Tonelli e Susanna Salvi
danza e coreografie Annalisa Maggiani
melodie e canto Paola Polito
costumi Maria S. Couture
maschere Women at Work
con Galliana BarabiniLuca BossiElena El FazayriSolange PassalacquaSusanna SalviAngelo Tonelli.