GIORGIO FRANCHI | Il televisore anni ‘90 scampato alla rottamazione trasmette un derby tra squadre dalle sigle misteriose, gracchiando una telecronaca perfettamente sincronizzata con i cali di energia della lampada che illumina il locale. Un gran galà di zarri in schimicata in attesa dell’ultimo 15 per Rozzangeles, reduci dal solito pattugliamento di Porta Cicca (o Porta Ticinese, per i non meneghini), si guarda intorno badando bene di evitare ogni interazione con i propri simili, mentre dalla cucina sale la morbida carezza del menù pizza col tonno – patate fritte – peronidasessantasei a quattro euro. Gli occhi del titolare, chef di specialità anatoliche volgarmente soprannominato “kebabbaro”, vedono entrare un giovanotto con cappello e cappuccio della felpa alla Eminem in 8 Mile, che dopo aver rapidamente salutato qualche conoscente chiede un kebab con scibola e una coca.

Il giovane virgulto riprende poi a conversare con la sua combriccola con la tipica cadenza sbiascicata dell’hinterland milanese. Che stesse prendendo in giro l’accento turco del cuoco? Il tono sembra piuttosto neutro, in realtà, e di certo il suo interlocutore non ha accusato il colpo; eccolo lì che in tutta tranquillità riempie di scibola il panino kebab del ragazzo fino a farlo traboccare a mo’ d’aulentissima cornucopia.

Molto probabilmente si tratta semplicemente di un riflesso spontaneo. È il cuoco stesso che, come molti locutori nativi delle lingue di area mediorientale, ha difficoltà a pronunciare cipolla e lo storpia in scibola: il cliente, sentendo questa dizione in tutti i kebab che frequenta, si abitua e, senza rendersene conto, muta la propria pronuncia.

Si potrebbe quasi parlare di un abbozzo di pidgin, una lingua di contatto fra due popolazioni tra cui manca un idioma comune parlato come seconda lingua che funga da ponte. Ne è un esempio l’inglese nigeriano o indiano, lingue nate in epoca coloniale e tuttora ampiamente diffuse nelle rispettive nazioni.

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Félix Morisseau-Leroy, scrittore haitiano che ha contribuito al riconoscimento del creolo haitiano come lingua ufficiale del Paese

La nascita di un pidgin italo-turco, in realtà, non può ragionevolmente essere più di una giocosa speculazione. La sproporzione fra il numero di residenti turchi e italiani nello stivale fa sì che siano i primi a doversi “piegare” alla lingua del Paese in cui vivono, e le sparute cellule di autarchia linguistica dei locali tipici vanno man mano italianizzandosi nella lingua e, parallelamente, nelle stesse tradizioni alimentari (chi di noi può giurare, in tutta sincerità, di non aver almeno una volta apprezzato un sushi mango, Philadelphia maionese, tabasco, gambero fritto e cipolla croccante?).

Tuttavia, la parola scibola ne ricorda un’altra, ben più radicata nei secoli: shibboleth (שבולת‎), parola ebraica che significa spiga e che in linguistica indica una parola molto difficile da pronunciare per chi parla un’altra lingua.
Nella guerra tra Galaaditi ed Efraimiti, narrata nel Libro dei Giudici (12.5 – 6), la parola fu appunto usata dai primi per distinguere i secondi che, sconfitti, fuggivano mischiandosi ad altra gente; chi, fermato dai soldati, non riuscisse a pronunciare shibboleth (il suono “-sh” non esisteva nella parlata efraimita), veniva ucciso. Esistono decine di esempi di shibboleth usati nella storia per identificare il nemico e creare fratture fra popoli diversi alcuni anche usati in Italia, come la parola ciciri (ceci), per identificare i francesi durante i Vespri Siciliani.

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L’opera Shibboleth dell’artista colombiana Doris Salcedo, esposta alla Tate Modern di Londra.

Una somiglianza fortissima tra due parole estremamente diverse, tra il mondo della lingua che divide e quella che unisce le persone.
In questi tempi in cui molti invocano il ritorno alla guerra, apparentemente così lontana nella nostra storia da non conoscerne – e non temerne – le conseguenze, una coincidenza simile sembra gridare che la lingua è e rimane il prodotto di millenni di contatti e mescolanze, in grado di superare in ogni modo qualsiasi barriera, indipendentemente dalla sua altezza o estensione. Neutrale perché sempre schierata contro tutti, anarchica e pronta all’obiezione di coscienza quando si tratta di combattere contro i propri fratelli.