REBECCA MOUTIER | La piccola sala Cieslak del Teatro Era di Pontedera è sempre estremamente intima e accogliente. Pochi posti a sedere, non numerati, si affacciano su uno spazio piano e senza quinte, abbracciato da tre pareti. Sembra alla portata di tutti, quasi come se, entrando, lo spettatore potesse decidere se scegliere una sedia o toccare con mano la scena. È così per la Prima Nazionale di Di qua dall’infinito, di e con Michele Santeramo.
Il pubblico fa il suo ingresso nella sala, si guarda attorno e con cura si mette comodo, mentre l’autore/attore e i due musicisti che lo accompagneranno si muovono sulla scena buia, in attesa di dare vita allo spettacolo. Tra noi e loro, a separarci, un sipario invisibile. Lo spazio che occupano è simile a quello di una sala prove: un tavolo quadrato al centro, circondato da strumenti musicali e casse acustiche e da tre sedie, sulle quali siederanno i tre uomini; sul piano sono poggiati computer portatili, fogli, altri strumenti, mixer audio e un vecchio telefono. Le luci sugli spettatori si abbassano mentre si alzano i fari sulla scena che vanno a illuminare solo il tavolo al quale Sergio Altamura (chitarra) e Giorgio Vendola (contrabbasso) tengono stretti i propri strumenti. Santeramo si siede e, leggendo e improvvisando, inizia a raccontare.

LPZ03219-copia-387x580.jpg
ph. Nico Lopez Bruchi

Le parole di prosa e poesia, derivanti da frammenti letterari, fatti di cronaca, testi dell’autore e sue riflessioni, si intrecciano e si amalgamano con gli interventi musicali, i quali accompagnano e si inseriscono nei racconti. Altamura gioca con gli strumenti e i mixer audio per creare suoni sempre diversi che impreziosiscono lo scorrere della narrazione, la quale si snoda sotto forma di pagine di diario. Si tratta in realtà di una pagina sola, quella del 13 marzo, scandita da orari precisi e mutevoli stati d’animo.
Aggrappandosi a L’Infinito di Giacomo Leopardi, Michele Santeramo ci parla dell’ispirazione, della creazione, della ricerca, della scrittura. E ci chiede di scrivere.
Poco prima della fine dello spettacolo, le luci si alzano nuovamente sul pubblico, l’autore/attore abbandona la sedia e si toglie l’archetto. In questo breve intermezzo guarda i suoi spettatori, pronunciando sorridendo un “Come va?”, subito seguito da alcune timide risate. Nessuno saprebbe davvero rispondere a quel “Come va?”, arrivato all’improvviso a rompere l’intensa attenzione. Ma adesso parla direttamente a ciascuno di noi. Ci invita a prendere i nostri telefoni cellulari e a scrivere, accompagnati per qualche minuto dalle melodie dei musicisti, ciò che ci appartiene più profondamente.
Nessuno dovrà leggere niente, ogni cosa rimarrà privata. È un momento di pura e personale libertà, perché, come afferma Santeramo, «scrivere è un esercizio per capire quello che non sai».
E per comprendere la poesia che Leopardi ha scritto in quella mattinata di primavera, serve acquisire esperienza.
La domanda al centro dello spettacolo riguarda proprio questo: come si può avvicinare questa grandezza? Come si può ottenere la grandezza necessaria per comprendere L’Infinito? Provando a immaginare le ore subito precedenti alla stesura della poesia e citando anche altri letterati, come Neruda, Pascoli, Noventa e Bukowski, Santeramo cerca in quest’ora di delineare un percorso al fine di mettere ogni individuo nelle condizioni di comprendere quella grandezza che ha portato il poeta a scrivere il suo capolavoro e ciò che i versi di quell’opera nascondono.

LPZ03197-copia-872x580.jpg
Foto Nico Lopez Bruchi

L’Infinito è senza dubbio uno dei componimenti più celebri di Leopardi, composto a Recanati alla fine del secondo decennio del 1800. Affrontando i temi dell’indefinito, del vago e della lontananza, il poeta riconosce nel colle e nella siepe un punto di partenza per una meditazione sull’infinito. Lo sguardo si ferma, impossibilitato ad andare oltre quel confine, e abbandona la descrizione del paesaggio per affrontare un percorso più profondo e interiore, guidato dallo sguardo dell’immaginazione. Il pensiero si appropria di ciò che la visione propriamente fisica non raggiunge, andando a fantasticare su quell’oltre sconosciuto, così immenso e forse irraggiungibile, ma proprio per questo affascinante. Al fascino si affianca però un piccolo accenno di paura, sentimento che tipicamente accompagna, in forme più o meno lievi, ciò che non si conosce e allo stesso tempo si desidera. Il poeta inizia a ricordare, ad agganciarsi a pensieri sul tempo e su quell’immensità che lo accoglie e gli permette di lasciarsi andare, di liberare il suo pensiero, come un naufrago in balia delle onde. Ed è questo che gli dà il privilegio di sentirsi vivo, di superare i propri limiti, di uscire da sé per raggiungere quella bellezza e quella libertà celate al di là del tempo e dello spazio conosciuti, lasciandosi cullare.

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quïete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.

La poesia è un desidero di fuga, uno sguardo al futuro, a quel mondo indefinito (e infinito) che attende ogni individuo, spaventandolo, ma attirandolo con forza.

Questo di Michele Santeramo non è però uno spettacolo su Giacomo Leopardi: riguarda tutti noi. La siepe di cui parla è visibile a ciascuno di noi e in pochi riescono davvero a superarla con lo sguardo. Cos’è questa siepe? Quando (e quanto) la si può oltrepassare? Stare di qua dall’infinito è come essere topi in una gabbia. Santeramo ce lo grida con rabbia.

Leopardi ci è riuscito, è andato oltre. Ed è questa la sfida che attende ogni individuo, sempre che sia lui a desiderarlo. La parola chiave è dunque cercare: tutti noi, ogni giorno, cerchiamo qualcosa che ci faccia uscire dall’incessante ripetizione delle giornate; questa volontà di cercare è già un importante punto di partenza. Servono tempo ed esercizio, anche solo per comprendere e imparare ad andare via dalle cose che conosciamo, ad allontanarci, oltrepassarle e muoversi al di là di esse, al di là della siepe che oscura lo sguardo, al di là dell’infinito.

 

DI QUA DALL’INFINITO

uno spettacolo di e con Michele Santeramo
musiche dal vivo di Sergio Altamura (chitarra) e Giorgio Vendola (contrabbasso)
e la partecipazione di Fabio Facchini
luci Monica Bosso
suono Flavio Innocenti
produzione Fondazione Teatro della Toscana

Teatro Era, Pontedera
Prima Nazionale 21-24 novembre 2019