ARIANNA LOMOLINO e ELENA SCOLARI | AL: Due uomini semplici con due storie “piccole” (ma è l’apparenza o, meglio, la magia del teatro) interpretate con genuina generosità da Andrea Di Casa e Daniele Russo. Alla bravura degli attori si aggiunge la consapevolezza registica di Peppino Mazzotta che rinuncia a ogni orpello, con un tocco elegante e lieve lascia siano la parola drammaturgica e il meccanismo dialettico fra i due a dar forma allo spazio e a riempirlo.

ES: Sì, La resa dei conti di Michele Santeramo è uno spettacolo tanto limpido nella struttura quanto complesso nei suoi risvolti di senso. Un testo estremamente intelligente, scritto molto bene e ineccepibile dal punto di vista dell’attento disegno dei personaggi: il loro sviluppo procede in un’armonica costruzione del rapporto tra i due che man mano ci svela pieghe e sfaccettature di esistenze tutt’altro che superficiali.
Come possiamo inquadrare queste due strane figure? Che sono un po’ a metà tra Valdimiro e Estragone, in attesa di un God che non arriverà, e la coppia diavolo-Cristo del grande Dostoevskij, non trovi?

AL: Potremmo dire l’uno di provenienza divina e relitto l’altro, ma è ancora apparenza: sono entrambi molto di più – o molto di meno? – di ciò che dicono – o che vogliono ammettere – di essere. La scatola scenica dà al pubblico la sensazione di trovarsi davanti a qualcosa di surreale, ambientato in un non-luogo dove la salvezza sembra davvero possibile.

ES: La scena (di Lino Fiorito, come i costumi) è definita da due quinte un po’ scrostate, pareti messe ad angolo, rese materia viva grazie alle belle luci di Cesare Accetta; in questo spazio stanno solo una panca e una piccola seggiolina, quasi da asilo. Pareti che sembrano assistere al dialogo e contenerne i pensieri.
Il primo personaggio (Daniele Russo) è un derelitto che ha tentato il suicidio, fallito, come fallita è la sua vita; il secondo (Andrea Di Casa) è un uomo dall’aria francescana, un uomo che ha avuto bisogno di trasformarsi in Gesù, ha avuto bisogno di crederlo per sé, e di farlo credere agli altri. È in missione per salvare un’umanità che forse non si merita i suoi sforzi. Parla col «padre suo celeste» guardando verso l’alto come un umanissimo Don Camillo, con tono ironico e poco convinto che il suo compito possa avere successo.

AL: Bella l’immagine di Don Camillo… La cifra ironica del testo è un elemento che sembra avere una vera e propria funzione equilibratrice. L’interpretazione di Di Casa è sicura, a tratti ardita e ben congegnata rispetto alla reticenza del personaggio di Russo che, con altrettanta sicurezza, svela il carattere della controparte di Gesù-Di Casa per livelli di intensità che via via dissipano il mistero che avvolge il perché della sua scelta suicida. Entrambi sono perfettamente in linea con la pulizia della scrittura drammaturgica, rispettata nella regia.
Il testo si trova al confine tra confessione e apologia, calato in una messinscena disadorna, come dicevi, al punto da sembrare neutra, dove l’impercettibile risuona e si amplifica per lasciare sempre più spazio a una dimensione “normale”, propria di un’umanità sola, scontenta e anche un po’ cattiva, che finisce per smentire la surrealtà di cui ci credevamo spettatori.

ES: Infatti scopriamo che il sedicente Gesù è un prete, posizione che – almeno teologicamente – lo avvicina un poco alla santità, e che l’aspirante suicida ha perso il lavoro, con questo la famiglia e anche la moglie. Ma la moglie l’ha uccisa lui (non la sopportava più, un motivo legittimo, d’altra parte) e anche per questo ha poi cercato di ammazzarsi.
Se Dio vuole (è proprio il caso di dirlo) non si fa cenno a edificanti lezioni contro il femminicidio, si tratta di un delitto. E basta.
E qui, a mio parere, si insinua l’idea di quella dialettica incalzante, la sottigliezza retorica del Grande inquisitore tesa a dimostrare la non esistenza di Dio e a mettere in dubbio l’immortalità dell’anima. I due, salvato e salvatore, discutono di libero arbitrio e di valore della vita in sé. Viene in mente il De libero arbitrio di Sant’Agostino, dove il Doctor Gratiae riflette sulla natura di spettatore di Dio, che assiste ai nostri atti e poi li giudica ma non li induce. Riconoscere quindi l’esistenza divina non libera completamente dalla responsabilità delle proprie azioni. Sant’Agostino arriva a sostenere il libero arbitrio come massimo dono divino.

AL: Riferimenti altissimi! Il testo di Santeramo è tanto asciutto quanto denso e, fra la varietà di spunti offerti, sembra inserirsi, senza pretese e con grande umanità, nella letteratura filosofica che discute il dogma della fede, e che ricorda il libricino di Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, che alla biblica domanda di Giobbe risponde in modo opposto alle Scritture, affermando la rinuncia di Dio al potere sul divenire del mondo e quindi sulla sorte degli uomini: il Dio di cui parla Jonas soffre per l’uomo cui ha concesso (l’irrevocabile) libero arbitrio.

ES: Andando al di là delle implicazioni filosofiche, la sensazione che La resa dei conti lascia è che una vera resa dei conti non sia possibile, deve rimanere un’apertura – quello spiraglio di luce che filtra al discostarsi delle quinte – da abitare con il pensiero, la cui forza determina la vita.
Il pensiero è la caratteristica dell’uomo e mai lo si percepisce così vitale come in un testo “vissuto” con tanta aderenza dagli interpreti e accompagnato da una regia limpida, presente ma attentamente discreta, capace di esaltare i concetti e di guidare gli attori a muoversi con naturalezza in uno spazio angusto, dove – pare banale – avrebbero potuto sembrare ingessati e invece sono mossi proprio da quei pensieri così guizzanti.

 

LA RESA DEI CONTI

di Michele Santeramo
regia Peppino Mazzotta
scene e costumi Lino Fiorito
luci Cesare Accetta
con Daniele Russo e Andrea Di Casa
coproduzione Fondazione Teatro di Napoli-Teatro Bellini, Fondazione Campania dei Festival-Napoli Teatro Festival Italia

Teatro Elfo Puccini, Milano
10 gennaio 2020