ILENA AMBROSIO | Art needs time. Rifletto sul claim che Il Mulino di Amleto ha scelto per il progetto Cantiere Ibsen, workshop periodico aperto ad altri artisti durante il quale «capire come riappropriarsi dell’idea di ricerca e di creatività».
Significativo ripensarci ora, proprio in questo frangente di sospensione in cui il tempo pare, da un lato, correre troppo in fretta e sfuggire alla nostra – ahinoi quanto labile e illusoria – capacità di controllo, e dall’altro sembra invece dilatarsi nell’attesa di un esito che non riusciamo a scorgere.
Cosa farne di questo momento? Fermarsi, riflettere, ripensare, rielaborareu un’esperienza.
Art needs time. L’arte ha bisogno di tempo. Per farla, certo, ma anche e prima ancora per darsi la possibilità di viverla, di diventarne parte. Di “esserla”. L’arte richiede conoscenza e c’è bisogno di tempo per studiare; richiede tecnica e c’è bisogno di tempo per acquisirla; richiede consapevolezza, ascolto attento di ciò che si perde tra i rumori e i gesti meccanici della quotidianità; ascolto dell’altro che ci sta accanto o di fronte e che, il più delle volte, guardiamo – senza vederlo – tramite uno schermo, che sia quello di uno smartphone o quello del pregiudizio, dell’egotismo, dell’individualismo.
Tutto questo richiede tempo, vacante ed esclusivo. Colgo – e accolgo – allora il senso di quel bisogno e di una scelta coraggiosa e (in tempi non sospetti) contro-corrente: riappropriarsi del tempo per studiare, sperimentare, interrogarsi su ciò che più importa della pratica artistica e, soprattutto, farlo nell’incontro con altri artisti mossi dalla stessa esigenza.

Durante i due giorni trascorsi al Cantiere Ibsen per la terza sessione di febbraio ho avuto una percezione nitida, evidentissima: entrando nella sala all’ultimo piano del Teatro Astra dove il gruppo era già a lavoro, osservando e ascoltando, mi è stato subito chiaro di essere entrata in un contenitore protetto in cui ci si stava davvero ritagliando un periodo da dedicare solo all’arte. Uno spazio spugnoso capace di assorbire il sentire di ciascuno, le idee, le reazioni agli stimoli e, insieme, una cassa di risonanza pronta a rimettere tutto in circolo, amplificato. Una palestra in cui allenare le abilità fisiche ed emotive dello stare in scena: movimento, elasticità, contatto, capacità di lettura dei segni. Una bolla per il corpo e per tutto ciò che il corpo contiene.
Nessuno di noi immaginava che proprio in quelle ore si sarebbe delineata la situazione che ora costringe alla sospensione anche il Cantiere… E allora questi miei ricordi per immagini li sento un po’ come un invito a impiegare con cura il nostro tempo, e come un “talismano” che possa accompagnarmi, accompagnarci, verso scenari più sereni.

Le giornate al Cantiere iniziano con un allenamento collettivo. «L’attore è come un giardino; vi crescono continuamente erbacce. A questo serve il training» dice Peter Brook. In tutti le fasi dell’allenamento, nei giochi, nelle improvvisazioni ho visto i ragazzi del Cantiere cercare quel momento, quella disposizione d’animo, quella postura che tra mille altre potesse essere fissata nella memoria mentale e fisica come un post it: è proprio questo che dovrò riportare in scena!
Marco Lorenzi in veste di (bonariamente, s’intende) sadico personal trainer ma anche di sensibile curatore del “materiale umano” con cui lavora, guida il gruppo in un training spesso scherzoso ma serissimo nel pungolare le skill – di tutti ma anche quelle particolari di ciascuno – dello stare in scena. Le sessioni del mattino sono state energia cinetica, sforzo fisico, corpi contratti, incrociati, allungati; ma anche divertimento, esilarante…

«La pallina da tennis è il miglior amico dell’attore» dice Marco… Beh, un amico poco docile se la usi come stimolatore dei trigger point e delle painful zone del corpo (le zone in cui si localizza il dolore per intenderci). Però è così che inizi a sentirti, in ogni tua parte, amplificando la percettività.
Con la consapevolezza acquisita il gruppo prende a camminare, il corpo si mette in circolo per sentire lo spazio e, insieme allo spazio, gli altri intorno, alla ricerca del movimento all’unisono, non imposto, ma trovato, insieme.

L’intensità aumenta e allora si corre, ci si butta nel flusso fino allo stop, fix point, aggrappandosi gli uni agli altri, in connessione. Ci si stanca ma è quello sforzo che esalta la percezione; direi come quando si allena un muscolo che solitamente resta escluso dalle azioni quotidiane: fa male ma si scopre di averlo. E allora ci si conosce un po’ di più.
«Compongo un’immagine di me e riesco a vedermi davanti a miei occhi; in questo modo penso che è davvero una gigantesca fortuna essere così, che il mio corpo è questo ed è bellissimo perché sono così unico, speciale. Questa luce gigantesca va portata in scena».
And don’t forget…

La simpatica pallina gialla pallina è diventata, poi, il “terzo incomodo” nel contatto tra coppie danzanti. In un esercizio di equilibrio la condivisione e la complicità nel gesto, nel movimento; l’allenamento allo scambio del piacere.

E poi c’è stato l’Animal Day. Come raccontare l’Animal Day? Immaginate un mix tra Tom e Jerry, un action movie e una scena da fanta-horror in cui piccoli animaletti mutati geneticamente diventato creature assassine e psicopatiche… No, non rende l’idea, meglio guardare.

Ci sono stati poi i momenti del silenzio, dell’attenzione al minimo suono, al respiro, allo scricchiolio del pavimento sotto il passo: l’educazione all’ascolto. E quelli del contatto, del tocco preciso, ragionato, pensato per accendere il partner, per fargli sentire. Con lo sguardo e le dita si indagava con cura il corpo dell’altro, alla ricerca, come su una mappa, del punto strategico, del crocevia delle sensazione. L’educazione al dono.

Dopo la pausa il gioco postprandiale. Sì, si gioca tanto al Cantiere; è un vero spasso a dirla tutta. Ma anche nei giochi ho ritrovato l’allenamento propedeutico allo stare in scena, allo starci come compagnia specialmente: collaborazione, sintonia, predisporsi al “sì” alle proposte  e agli stimoli dell’altro; ancora, la capacità di salvare lo show in difficoltà, di essere un “giocatore lavatrice”, quello che in partita trasforma un errore in opportunità.

Come entra Henrik Ibsen in tutto questo? Non tanto come oggetto di riflessione in sé. Mi è sembrato che l’opera di Ibsen sia stata scelta come “canovaccio”, un filo rosso intorno al quale tessere la fitta trama di possibilità che un attore può darsi e dare in scena.
Durante la sessione cui ho partecipato il testo di riferimento era Un nemico del popolo. Rapporti di potere, legami familiari, il bene e il male della e per la società. Tutto è stato usato come materia prima di improvvisazione.

Lo stare in società è diventato il gioco delle gerarchie. Un’improvvisazione di due coppie che calibrano i propri personaggi sulla base di due numeri pescati a caso: un grado di gerarchia in una scala da 1 a 20, un grado di empatia in una scala da 1 a 10. Dati, ovviamente, conosciuti solo dal singolo attore.
Per esempio, avere verso qualcuno un grado di empatia di livello 10 significa più o meno questo…

L’improvvisazione diventa un modo di studiare, agendole, le intricate relazioni che quotidianamente ci si ritrova ad avere e che necessariamente mettono in gioco dinamiche di potere e, contemporaneamente, più o meno accentuate passioni e idiosincrasie.
Come si fa a dimostrare amore appassionato a chi, invece, ti detesta? O, ancor più difficile, a qualcuno che ti è sottoposto nella scala sociale?

 

Poi, certo, è arrivato il momento di incontrate Ibsen e interrogarlo. Di farlo – come mi ha spiegato Marco – con lo sguardo filtrato dalle pratiche proposte da due manifesti: quello del movimento cinematografico Dogma 95 e il Manifesto di Gent di Milo Rau. Un’interrogazione sulle possibilità del contemporaneo.
Poi, di farlo realizzando delle messe in scena di favole – un ulteriore filtro di lettura – che in qualche modo contenessero echi della sua drammaturgia.
E poi, ancora, di farlo faccia a faccia: seduti in cerchio, testo alla mano, seguendo il metodo degli etudes impostato da Vasil’ev e Koršunovas, sono state “aperte” le scene di Ibsen, per valutarne le esplicite o implicite circostanze precedenti, esplorarne le sfaccettature e trovare il modo di rappresentarle come qualcosa di nuovo e arricchito. L’impressione è stata quella di spiare, insieme al gruppo, dal buco di una serratura: ogni particolare della scena, una parola, un intercalare, un passaggio della didascalia, persino un silenzio tra una battuta e l’altra è diventato una fessura dalla quale guardare e oltre la quale scorgere un caleidoscopio di possibilità rappresentative da vagliare in improvvisazione.
Cosa è accaduto tra i coniugi Stockmann prima dell’arrivo della lettera del sindaco? Come influisce la scoperta del medico sull’equilibrio di coppia? Cosa prova la signora Stockmann verso l’adamantina quanto rischiosa fermezza del marito? Quale sguardo potrebbe raccontarlo? Forse questo?…

E come sarebbe se i due fratelli fossero, invece, due sorelle? Quali differenti colori emotivi le caratterizzerebbero? E se le posizioni, che siamo soliti deprecare, del sindaco avessero una qualche ragion d’essere?


Ho rivisto in tutto il lavoro che Il Mulino di  Amleto porta sulla scena, ne ho afferrato gli “antefatti”: lo st udio analitico, l’af fondo nei sensi e la riemersione nei segni scenici, la ricerca spasmodica di quel gesto, di quello sguardo, di quella intonazione.
A giornata conclusa, uscire dalla sala era uscire dalla bolla, ritornare nel tempo scandito e frettoloso di sempre (del sempre di qualche settimana fa almeno). Perché se dovessi dire cosa è stato – e speriamo sarà ancora per l’ultima sessione in programma ad aprile – più di tutto il Cantiere Ibsen direi questo: un tempo dilatato ma densissimo dedicato alla ricerca di strade nuove, vive e vitali per fare arte, delle possibilità che spesso sfuggono nell’urgenza di realizzare un “prodotto” da mettere in scena. Eppure una ricerca non fine a sé stessa, né, soprattutto, chiusa in sé stessa ma, anzi, spalancata, desiderosa del contatto, del confronto, dell’incontro con lo sguardo diverso capace di arricchire. Immersa nel flusso di identità che si sono incontrate.
«Pensiamo che questi possano essere strumenti che il teatro ha per cambiare il mondo, per veicolare significato e scoprire nuovi principi e modelli di messa in scena».
Probabilmente è questa (se non la) una strada per fare arte, la giusta qualità di tempo da dedicarle.
Ci ripenso, in attesa che tutti si possa essere di nuovo padroni di farlo.