ANTONIO CRETELLA | Il “piano Johnson” per il contenimento non già del virus, ma dei possibili danni che l’eventuale lockdown avrebbe arrecato alla catena di produzione anglosassone con conseguente marginalizzazione dei decessi derubricati come lutti inevitabili, non è, a ben guardare, un fulmine a ciel sereno, né il frutto dello sragionamento di un leader dallo spessore politico imbarazzante, quanto la piena realizzazione di un una visione del mondo profondamente radicata nel conservatorismo inglese che aveva già trovato perfetti portavoce in figure come Margaret Thatcher. Le parole di Johnson sull’ineluttabilità delle morti, inevitabile effetto collaterale della cura, ma anche gli altrettanto cinici progetti di utilizzare i bambini come vettori del virus, riportano alla mente quelle altrettanto sprezzanti pronunciate dalla Lady di Ferro durante la crisi di Cortonwood dell’84, quando circa 20.000 minatori britannici furono sacrificati sull’altare del neoliberismo. La parola che forse meglio lega i due eventi storici è expendable, sacrificabile: i corpi dei minatori, al pari dei corpi deboli degli anziani, non più funzionali e produttivi, sono sacrificabili come un arto in cancrena. Non molto diversamente dalla expendability degli operai della seconda rivoluzione industriale: quello che allo stremo delle forze, coi polmoni neri, non riusciva più a lavorare, lasciava il posto a un nuovo lavoratore, un rimpiazzo meccanico privo di dignità. Un paragone azzardato, forse, ma il neoliberismo non si fonda su presupposti così diversi. La flessibilità, il concetto paravento sotto cui viene mascherato il precariato, applicato al massimo grado diventa flessibilità esistenziale: adattati, se necessario, a morire se è quella la mansione che ti viene richiesta. I pedoni, in fondo, servono a quello.