ELENA SCOLARI | Queste settimane di clausura stanno mettendo alla prova tutti noi, quale che sia il lavoro che svolgiamo quando siamo a piede libero.
Ci si industria, si cerca di scartare dai binari sui quali quotidianamente scorrono le nostre giornate, chissà: forse si riflette un poco di più.
Oltre alla folta schiera di lavoratori dello spettacolo forzatamente fermi dal 23 febbraio 2020, ci sono altre figure professionali che dell’incontro e dello sguardo diretto sul mondo fanno il loro pilastro, tra queste ci sono i giornalisti. Dalla finestra ora non si scorgono movimenti, non si può correre in alcun luogo per fare la cronaca di quello che sta accadendo, impossibile essere davvero “in medias res”. E come si sente un giornalista in questa chiusa circostanza?
PAC ha “incontrato” a distanza Gianni Barbacetto, firma del Fatto Quotidiano. Ha lavorato al Mondo, all’Europeo, a Diario, ad Annozero. Collabora a Micromega e dirige Omicron (l’Osservatorio Milanese sulla Criminalità Organizzata al Nord). Ha lavorato per radio, tv, cinema, teatro. Il suo ultimo libro è Piazza Fontana: Il primo atto dell’ultima guerra italiana (ed. Garzanti).

Professionista sempre attento a ciò che deve essere raccontato ai cittadini, secondo la massima “conoscere per deliberare” di Luigi Einaudi, anche in questo dialogo suggerisce che cosa potrebbe essere oggetto delle prossime inchieste giornalistiche, legate alla pandemia in corso

Cosa sta cambiando in queste settimane nella pratica del suo lavoro?

Si dice che il bravo giornalista lavori soprattutto con le scarpe, cioè andando di persona sui posti che deve raccontare. In questo periodo niente di tutto questo: si sta fermi a casa, non si va neppure in redazione ma si lavora con telefono e computer.

Come pensa che i media dovrebbero affrontare questo fenomeno? 

È difficile lavorare in questo periodo, perché l’informazione è quasi tutta centrata sul contagio e per affrontare questo argomento bisognerebbe avere competenze scientifiche e conoscenze che non abbiamo. Non hanno certezze neppure gli scienziati, del resto…
Però dovremo prima o poi raccontare e cercare di spiegare perché la zona più ricca del Paese è stata contagiata e perché il contagio non è stato affrontato subito con la mappatura dei contatti e con la protezione dei medici e degli ospedali, diventati essi stessi fonti d’infezione…
E perché qualche politico fa campagna elettorale parlando ogni giorno di quel poco che la Regione fa, tacendo quel tanto che non ha fatto e non fa.

La condivisione di informazioni – ma anche di condizioni personali e stati d’animo – a distanza è condivisione reale?

Dobbiamo imparare a condividere a distanza. E questo è il momento per farlo. In fondo siamo fortunati: abbiamo computer, telefoni, social. Impariamo a usarli bene.

Quale pensa possa essere il ruolo di chi si occupa di cultura in Italia, in questa circostanza? 

L’emergenza ci obbliga a cambiare paradigmi e stili di vita e di pensiero. Solo la cultura potrà dirci quali saranno i nuovi modelli e le nuove forme di pensiero e potrà svelarci il senso profondo del cambiamento che sta avvenendo nelle nostre teste e nella società.

Non ci potrà essere un giorno dal quale si potrà dire fuori tutti e le attività ripartiranno, in una “ricostruzione” graduale cosa pensa che avremo perso quando usciremo dalla contingenza?

Viviamo nell’incertezza. Sappiamo poco del virus, delle sue caratteristiche di diffusione, di quale pericolo ci sovrasta.
Siamo “gettati nell’aperto, nel mondo”, come diceva Heidegger, per citare il suo concetto di Essere (da Essere e tempo): il pericolo più profondo per l’essere umano è la sua finitezza. Perciò l’autenticità dell’esser-ci non sta nell’uscire fuori dal pericolo, ma nell’assumerlo in tutta la sua angosciante pienezza.
Non sappiamo “né il giorno né l’ora”, ma un “dopo” ci sarà. Su questo “dopo” dovranno lavorare – ognuno nel suo campo – gli scienziati, gli economisti, gli uomini di cultura.

In molti riflettono su questa strana dilatazione/contrazione del tempo, che altalena in una successione di fatti che è stata vorticosa e che ha mutato le nostre vite, lei come definirebbe il tempo di queste giornate?

Il tempo è sospeso. Non ci sono più scadenze, non ci sono più appuntamenti. Non c’è più né anticipo né ritardo (io sono un ritardatario compulsivo). Il tempo è dilatato, anzi diluito. I ritmi sono quelli antichi e primari del giorno e della notte, della spesa e dei pasti.
Per fortuna ci sono i giornali, con i loro riti di confezionamento e i loro tempi di “chiusura”.