GIORGIO FRANCHI | 2006. Fabio Grosso, all’Olympiastadion di Berlino, compie la sua rincorsa verso il dischetto sferrando il sinistro che spiazzerà Barthes, laureando l’Italia campione del mondo. La rete si gonfia, la curva azzurra esplode, Caressa e Bergomi fondono i microfoni della Rai. I telegiornali mostrano i festeggiamenti “dall’Alpe a Sicilia”, gli oceani di bandiere che ricoprono un Paese che sembra aver sorpassato, in una sola notte, particolarismi, campanilismi, divisionismi e -ismi vari. Si erano fatti gli italiani, avrebbe detto D’Azeglio.

L’ondata di patriottismo, invece, è sparita in poche ore. Per anni non abbiamo visto alcun tricolore sventolare all’orizzonte, nonostante qualche timido tentativo di propaganda dei sovranisti e complice qualche fallimento calcistico di cui preferiamo scordarci. Questo, almeno, fino al coronavirus. Da quando abbiamo scoperto la pandemia, i balconi e i giornali si sono riempiti nuovamente di bandiere italiane e i discorsi politici di un rinnovato senso di appartenenza nazionale.

Festeggiamenti dopo la vittoria ai mondiali nel 2006.

Victor Klemperer, linguista e filologo ebreo vissuto in Germania negli anni del nazismo, ha impiegato ampia parte della sua vita a raccontare la mutazione linguistica del Terzo Reich. Il professore individuava nell’occupazione della lingua una delle più efficaci forme di crescita del nazismo. Nel suo libro LTI – la lingua del Terzo Reich, Klemperer paragona le parole a goccioline di arsenico: assumendole a poco a poco si muore senza rendersene conto. A distanza di anni, è interessante notare come la strategia hitleriana costituisca ancora un modello di imitazione, consapevole o meno, per il linguaggio politico in tempi di pace.

LTI è di per sé un termine nazista, per quanto non coniato dalla propaganda nazista; lo è in quanto la sigla di Lingua Tertii Imperii, come sigle erano le varie SS o SA. Secondo Klemperer le sigle, oltre a rifarsi all’ideale di velocità e immediatezza del pensiero del Mein Kampf, permettono l’occultamento del significato di un termine. Forse è per questo che negli ultimi tempi si è assistiti a una migrazione giornalistica dal quasi sensazionalistico coronavirus a Covid: una parola più gentile, che ricorda un detersivo o tutt’al più una tassa.

Accanto alle sigle, che per la verità non sono mai mancate nel nostro lessico politico, sono tornate in auge le parole del risorgimento, come eroe o battaglia; addirittura stiamo assistendo a un ritorno di patria, che è suonato anacronistico persino alle orecchie di Klemperer quando l’ha sentito per la prima volta da Mussolini. In Germania, racconta in LTI, si affermò Kämpferisch, parola desueta presa in prestito dagli esteti neoromantici a indicare l’eroismo. L’autore non manca di ricordare quanto l’eroismo venisse ostentato nei discorsi ufficiali e nella stampa; la strumentalizzazione dell’eroismo, secondo Klemperer, svuota il gesto eroico della sua nobiltà.

Klemperer racconta inoltre della presentazione del governo come forza salvifica. I discorsi del capo di Stato vengono annunciati a più riprese, trasformati in una liturgia alla quale è dovere civico prendere parte e dove si freme nell’attesa di un intervento che curi la nazione (si riferisce, qui, al primo periodo del nazismo, ancora permeato dall’ottimismo popolare). Si potrebbero tessere molti parallelismi con gli appuntamenti sia televisivi del Presidente, sia quelli in diretta Facebook dell’opposizione, puntuali e con cadenza regolare.

Assieme alla mutazione linguistica stiamo assistendo a quella dell’immagine. I telegiornali ormai si chiudono sempre più spesso con immagini di repertorio di imprese sportive o dei voli delle Frecce Tricolori, con tanto di inno di Mameli o Va’ pensiero in sottofondo. Klemperer ricorda come l’automobile e successivamente il panzer siano stati il feticcio della propaganda fotografica della Germania nazista, mentre per l’uso propagandistico dello sport rimanda al primo capitolo del Mein Kampf, in cui il Führer tesse l’elogio dell’educazione fisica della razza ariana.

Il lessico nazista, tuttavia, non è stato ripescato dal dimenticatoio dagli studiosi del linguaggio politico moderno; la prova tangibile di come la LTI sia pervenuta intatta fino a oggi l’abbiamo avuta nelle scorse settimane in Italia (non dimentichiamo che la lingua nazista è per certi versi un dialetto di quella fascista). Gli eserciti di delatori appostati alle finestre che fotografano chiunque si trovi in strada sembrano corrispondere al termine centrale applicato dalle pagine del Mein Kampf alla lingua quotidiana: fanatico. Il cittadino modello, costantemente in odore di promozione a eroe, che agisce prima di pensare, guidato dalla fede al suo leader e agli ordini ricevuti. E pensare che è passato quasi un secolo dall’inizio del Ventennio.

Se questi sono i tempi, il vaccino per la lingua della pandemia arriverà molto dopo quello per il Covid.