ANDREA ZANGARI | Dove: fra due finestre luminose, che inghiottono parole e ributtano immagini. Flussi, non corpi, per i quali non si dà geolocalizzazione.
Cosa: un decalogo, dieci pezzi di archeologia su tracce social. Dissodando un terreno melmaccioso, dove l’essere affoga, ma non muore perché prima dell’immersione s’è lasciato andare il corpo (l’ha rinegoziato, dicono).
Chi (lui): PierGiuseppe Di Tanno, attore, performer, premio UBU under 35 nel 2018. Frequentatore generoso del corpo e del pensiero.

Lui chiosa: “Facebook è una fognatura del “re-post” humano. Vi scorrono dentro gli umori fluidificati dagli organi interni, è un luogo vischioso, discendente dell’antico Vomitorium romano. Ogni post è un escremento. È un fatto che per entrare nella stanza da bagno molti di noi prendano il telefono: correspondances. Dunque il decalogo che tu mi proponi è in verità un’analisi delle feci, un frugare tra queste defecazioni della mia identità social. In questi giorni di perle altrui ne ho ingoiate molte, e non essendo trasformabili dal sistema digerente, potremmo ripescarle in questo frugare: archeologia sì, della merda. In questo tempo di sanificazione ossessiva, sento il bisogno di parole assembrate che siano sporche, voglio correre il rischio di schizzare chi le legge”.

Ho attraversato parole e immagini degli ultimi due mesi sul suo profilo social-vomitorium, attratto dagli insoliti bagliori che i resti di un’attualità masticata giorno per giorno mi mandavano. Ho visto uno sguardo; ne tentiamo una messa-in-forma in forma di dialogo, partendo dai dieci frammenti più luminosi che ho raccolto, alcuni innestati in altri, per analogia.

Foto Brì Di Tanno

Paura: s-comparsa teatrale.
E se poi di questo linguaggio ci scordassimo? Hai paura di questa prospettiva? Hai avuto paura, in questo periodo?

La valle s’è svuotata di corpi. L’unico modo per riempirla tutta è buttarci dentro un grido bestiale. Alcuni luoghi non esistono se non attivati dal nostro posizionarci dentro di essi, sono paesaggi che vivono solo se ci scorre il sangue nostro.
Io sono uno spirito anoressico allenato alle mancanze per cui il fare a meno è addestramento senza fine, ho il fascino della negazione radicale, ma la paura minaccia di mozzare ogni mio respiro. È un lupo buio che cammina alle mie spalle, scelgo di non dargli da mangiare – quando mi accade di sfamarlo, lui azzanna pezzi del mio corpo.
Credo che il terrore sia condiviso: siamo circondati da volti sfumati, fantasmi imbavagliati, la valle s’è popolata di figure inguantate di plastica. Come lavoratore dell’assembramento, sento sorgere un futuro da strega. Se la condanna è quella ad una digitalizzazione hardcore, noi ultimi baluardi della carnalità, custodi del contatto, i dissidenti dell’arte dal vivo, potremmo essere perseguitati. Dubito sull’esecuzione alla Giordano Bruno – ci spetta uno stile più freddo, una crociata silenziosa contro i germi della performance.
È certo che il teatro scomparirà solo insieme all’uomo.

Basta.
Così non si può andare avanti, siamo tutti d’accordo. E allora andiamo indietro? Restiamo fermi? Ma poi, basta con cosa?

Bisognerebbe iniziare radicalmente a pensare contro sé stessi (eredito da Cioran questa formula magica); essendo l’uomo votato alla propria tortura, adottare la strategia di Miyamoto Musashi che si presentava sul luogo del duello con il nemico in ritardo o in forte anticipo, per coglierlo di sorpresa, confonderlo, combattendolo a volte senza spada, vale a dire con qualunque strumento. Minare i propri processi mentali, scardinare le fissità tossiche dei pensieri. Tutto questo per me ha le sembianze di una micropolitica soggettiva, la rivoluzione è interiore e individuale: meditare in una stanza o manifestare in una piazza? Una questione senza Amleti. Sogno Greta Thunberg, portata in processione come un’icona sacra, che spinge l’interruttore planetario della “tabula rasa”: come l’incendio della biblioteca di Alessandria, invoco l’annullamento di tutto il sapere e di ogni memoria che fluttua nel digitale – resta solo ciò che è inciso sui corpi e nella capacità umana di costruire ricordanze. Una rinuncia collettiva impossibile. Oggi esistere senza protesi tecnologiche è impensabile, e se ci siamo autoprivati della libertà di pensare qualcosa significa che siamo condannati alla sua irrealizzabilità. Io non abdico alla sovranità del mio percorso, sono l’embodiment di una serie di minoranze mixate, per scelte intime e perciò politiche, dieta alimentare, nomadismo, persino per taglio di capelli: giusto la mia pelle bianca e il fatto di essere un bio-uomo occidentale (connotati che, fino a prova contraria, non ho scelto io) mi iscrivono in un insieme più vasto. Mi manifesto declinandomi come una sana controtendenza, nello stesso tempo rivendico il mio essere asteroide in corsa verso lo schianto e l’irreparabilità di questa mia caduta nel disagio. Siamo scagliati in avanti, tornare indietro è utopia. E utopia vuole dirci “da nessuna parte”, no?

Essere madre.
Un sogno? Un desiderio? Una necessità? E se poi dessi alla luce un* figli* artista?

Sono un abolizionista del genere, animato da istinto materno, pur essendo dotato di un pene. La spinta creazionista è intersessuale. Se avessi un figlio, gli augurerei di vergognarsi dei suoi genitori: sarebbe la garanzia di un’evoluzione in purezza.

Transustanziazione.
Quale epifania in questi giorni? 

Io ho visto un palcoscenico crollare, le assi sfondate, e sotto non c’era niente. Tutti potevano vederlo: un vuoto senza luce che la frana rivelava come un buco nero.

The new Lampedusa is your skin (P.B. Preciado).
Questo regime biopolitico tu lo senti sulla pelle? Fra le mura di casa, o mentre le piante dei piedi affondano nell’erba? Come (ri)pensi alla libertà?

Ah Preciado… Preciado è una spada bagnata nel testosterone che accarezza la mia testa rasata. Vorrei che fosse Preciado a decapitarmi, se un giorno deciderò di fare seppuku. Risponderò dunque attraverso un cordone ombelicale che mi riallaccia a P.B.P.
Il regime biopolitico mi soffoca: il sistema di controllo lo abbiamo totalmente introiettato. Ricordo che quando uscivo da bambino era come farsi inghiottire dal buio. Senza rivestire d’oro il tempo del passato, posso dire che è questa dimensione di favola a mancarmi: l’irrevocabilità del diritto a dissolversi, la sua magia. Da utente sono diventato vittima, mi muovo come il protagonista di uno snuff-movie in cui il regista è la mia idea di Stato.
Durante questa quarantena la smania del controllo ha sfondato la porta della mia stanza, si è abbandonata sul letto dove dormo, ha prodotto la mia identità. Ma tu parli con uno che vorrebbe girare per le strade nudo e non può, che sente naturali tante cose che sono vietate. Sia chiaro: non le desidero in quanto illegali. Le desidero perché trovo che siano esigenze umane, fisiologiche. Siamo giunti a interdirci la naturalità. Chiunque è in grado di scrivere un post, ma la principale qualità di un essere umano resta, per me, saper accendere un fuoco nel bosco – e in questo caso il gruppo si fa più stretto.
Rifiuto universalmente il concetto di categoria: è un processo di archiviazione che non contiene pressione sanguigna, non contempla il grado di fame dell’individuo. Tu hai scritto “libertà” e io, ora, alle 05.46 del mattino, sto guardando un uccello che si posa su un’onda nel mare: il mistero di un equilibrio che danza sopra l’acqua, il suo creare appoggio inesistente che muta forma ad ogni istante e che contiene la possibilità di un volo.

Parliamo d’altro (l’irraggiungibile come unica tensione possibile).
Raramente in questi giorni ho avvertito di andare oltre la contingenza: mi sono fatto io stesso, con la mente, mura ben più strette di queste in cui ho abitato. Parlami d’altro, o d’Altro, come un gioco a dimenticar-si, sì.

Ciò che è più importante accade all’interno, canta il Tao Te Ching. Non so se conosci quella storia che racconta del tempo in cui due importanti maestri risvegliati, che vivevano lontani, stavano per incontrarsi per la prima volta. I discepoli erano elettrizzati, finalmente il loro maestro avrebbe incontrato un altro guru e loro avrebbero potuto assistere a questo evento unico e potentissimo, ricevendone chissà quale illuminazione. Accadde che quando i due uomini si incontrarono, trascorsero un giorno e una notte senza scambiarsi una parola. Non si dissero nulla. Immagina la delusione dei devoti. Che insegnamento esplosivo, il silenzio. Quando si apre la bocca tutti sbagliano, ho sentito dire.

Grandi progetti (indice di felicità interna lorda).
Su cosa stai lavorando?

Più che mai preferisco valorare. Sono in fase di ascolto per ri-progettazioni future, dopo l’annullamento totale di questi mesi. E mi scopro sempre in ritardo sulla lista dei progetti che minaccio di realizzare. Aspetto l’uscita di Romulus, la serie ideata da Matteo Rovere sulla scia del suo film Il Primo Re, che ho finito di girare qualche mese fa, e che potremo vedere in autunno. Si tratta di un’opera epica in cui ci siamo fatti custodi di una lingua protolatina arcaica ed eroi di imprese belliche che ho avuto il piacere di performare insieme a splendidi artisti, un nome fra tutti Silvia Calderoni.

Il teatro è l’edificio.
Fra Arene e drive-in. Quale spettacolo insolito si vedrà dal palcoscenico, corpuscoli sparsi, audience sbranata. Te lo immagini?

Mi sto dedicando ad osservare ciò che scompare piuttosto che visualizzare ciò che sta per apparire. Mi auguro che sia il momento per il Teatro di fare sirsasana, di mettersi a testa in giù invertendo la verticalità per rimescolare i liquidi e auto-provocarsi un nuovo fluire molecolare. Tu parli di insolito, io dico welcome to the insolito, magari, sarebbe una benedizione.
Sogno una progettualità che veda assegnare tutte le direzioni artistiche a bio o tecno-donne: non per farne una scontata questione di genere, ma per sperimentare partendo dal negativo di una situazione stagnante, e verificare cosa cambia semplicemente sostituendo ad ogni cellula feudale patriarcale una rete matriarcale. Suggerisco di inserire tra le norme del nuovo assetto della fruizione dello spettacolo dal vivo la consegna dei dispositivi cellulari al botteghino, per entrare in uno spazio senza contaminazioni di onde protesiche e insieme per fondare un campo energetico estraneo a quello che esiste già fuori dall’edificio, verso una purezza dello stare.
Auguro anche una tutela sempre maggiore della biodiversità nella cura delle proposte, davvero sogno di leggere stagioni che contengano identità provenienti da bioclimi vari, e non sfumate dentro la tendenza del colore unico di moda.

Il destino ci ha voluti Hikikimori.
Come hai vissuto questa ondata di performance live o registrate, incontri, riunioni online? Hai pensato anche tu di lasciare qualche traccia? 

L’ho trascorsa squattando una torre d’avorio e seguendo quasi nulla di tutto ciò. Ho risposto all’invito di comporre una playlist per Roboterie/Nostri i Corpi Nostre le Città e ho girato un documentario con IfHuman: si tratta di collettivi in cui sono militante. Per il resto, continuo a rispettare il tempo di posa che ogni pratica trascina con sé. Ho incarnato la politica del rifiuto solido dicendo di no alle proposte di residenze digitali che mi sono state preziosamente offerte. Custodisco come un tesoro questo principio di disidentificazione, questo sentirmi distante da poetiche e manifestazioni che non mi appartengono: il dis-sentire è l’unica genesi politica che io conosca. Il rischio della desublimazione è in pieno corso, io tento di attraversare questo fiume senza farmi toccare dall’acqua. Ho spalancato il mio quotidiano alla comunicazione social, mi sono fatto cavia – si tratta di un esperimento, non posso rifiutare qualcosa se prima non mi sono lasciato bruciare per conoscerla. Ma la mia identità nel teatro resiste fuori dalle piattaforme. In generale non mi affascina la missione di lasciare una traccia, di farsi immortali, credo sia un inciampo se qualcosa resta. Mi attrae molto il farsi invisibili, come un superpotere, trascorrere senza manipolare il colore dello sfondo né proiettare ombre.

Pianto altissimo.
Questa è una tragedia?

L’autodistruzione è un processo organico che si chiama vivere. Se questa può dirsi o meno tragedia, è questione che ha a che fare con lo stile in cui accade tale fenomeno di de-composizione. Questa catastrofe virale è nel nostro corpo, influenza chiaramente ogni possibile azione futura sulla scena, si è già fatta carne, inevitabilmente entrerà nei teatri una volta che entreremo noi. Anch’io sento la pressione ereditata dal secolo scorso di un’ossessione analitica su tutto ciò che si manifesta, che porta con sé il rischio di un appiattimento dell’esser-ci ad una banale dimensione linguistico-mentale: nominare, definire, dire. Naturalmente credo nel potere terapeutico di un’operazione simile, si tratta di un togliere peso, di imparare ad osservare.