RENZO FRANCABANDERA | L’idea è quella di contribuire attivamente all’emergenza che il mondo della cultura si trova oggi ad affrontare, ed è dalla volontà di partire proprio dalle difficoltà di base del mondo dello spettacolo dal vivo che è nato Prove generali di solitudine un Concorso di scrittura teatrale aperto a tutti, anche ai non professionisti, senza distinzioni di età e professioni, ideato e promosso da Carrozzeria Orfeo, con il sostegno di Fondazione Cariplo, Marche Teatro, Teatro dell’Elfo, Teatro Bellini di Napoli, Teatro Nazionale di Genova e in collaborazione con PAC Paneacquaculture.net.

Un Concorso di scrittura teatrale atipico dalla durata di due mesi (maggio/luglio) e composto da quattro diverse fasi autonome con cadenza bisettimanale con il primo appuntamento già in corso da mercoledì 13 maggio (il calendario incluso nel Regolamento).

Ogni due settimane, Carrozzeria Orfeo proporrà ai partecipanti una parola chiave inerente all’emergenza sanitaria che stiamo vivendo e sulla quale gli autori dovranno scrivere. Gli stimoli non mancano. Contagio, Solitudine, Complottismo, Eroi, Pandemia, Vaccino, Reclusione, Prigionia, Ordine mondiale, Andràtuttobene, Balcone: sono solo alcune delle parole che negli ultimi mesi hanno creato una sorta di nuova “cosmologia” delle nostre vite, entrando forzatamente nella nostra testa e “colonizzando” il nostro cervello che sembra non riuscire a pensare più ad altro.

Ne abbiamo voluto parlare con Gabriele Di Luca.

Gabriele Di Luca ph- Laila Pozzo

Gabriele sembra quasi che questa esperienza collettiva abbia un po’ trovato impreparati gli artisti dell’arte dal vivo, non solo rispetto ai luoghi ma anche rispetto alle possibilità di ripensarsi. Secondo te perchè si è data questa circostanza in generale?

Innanzitutto, credo che l’emergenza Coronavirus abbia scosso trasversalmente tutti i settori e più in generale gran parte dell’umanità. Il nostro cervello, così intrappolato nelle sue abitudini, ci ha messo un po’ per realizzare prima, ed accettare poi, quello che stava accadendo e il processo non è certamente ancora concluso. Siamo le generazioni del benessere, quelle che non hanno mai conosciuto fame e guerra e che, a differenza dei nostri nonni, non hanno mai dovuto provare realmente l’esperienza del sacrificio; un sacrificio non atto ai propri obiettivi personali, ma al benessere di una collettività. Ecco, semplicemente non siamo attrezzati. Altro che “andrà tutto bene…”  Mi è lampante, partendo dalla politica fino ad arrivare ai cittadini, come questo periodo, aldilà degli slogan e del finto buonismo, abbia messo in luce in più occasioni le debolezze di una società fondamentalmente viziata, egoista, infantile e capricciosa. Per quanto riguarda il teatro, beh, molti non sapevano “pensarsi” nemmeno prima, quindi è faticoso chiedergli di ripensarsi adesso. A difesa di tutti noi, c’è da dire che il teatro ha una regola a mio avviso non aggirabile: deve essere fatto dal vivo, al presente e con il pubblico. Non si tratta di essere dei conservatori incapaci di quell’elasticità che la vita ogni tanto richiede, ma di essere “preservatori” e custodi di un’ arte che, tradendo il proprio compiersi attraverso un rito reale, tradirebbe le fondamenta di se stessa. Detto ciò, è giusto provare a ripensarsi momentaneamente e impegnarsi in previsione di un futuro meno faticoso. Questo, infatti, a mio avviso, non dovrebbe essere il momento dell’attesa o della speranza passiva, ma il tempo dell’approfondimento, della lungimiranza e dell’investimento: ministero, grandi teatri, compagnie e singoli artisti hanno la possibilità (e la responsabilità) di usare questo periodo di “tregua” per ripensare a molti aspetti del nostro settore che non funzionavano nemmeno prima e dar vita a nuovi progetti che sviluppino contenuti che quando vedranno la luce saranno spendibili con efficacia. Solo così l’emergenza potrà diventare un volano per la ripresa.

illustrazione di Federico Bassi

Per voi gruppo di lavoro, cosa è stato questo tempo?

È stato, prima di tutto, un periodo di grandi domande perché non si può sfuggire al presente: come possiamo tenere comunque vivo il rapporto con il nostro pubblico? Cosa possiamo inventarci di abbastanza intelligente per reagire creativamente all’emergenza senza dover per forza condividere continuamente in rete foto e video nostalgiche dei nostri spettacoli che sembrano veicolare implicitamente il messaggio: “poveri artisti, quanto era bello stare sul palcoscenico…è tutto finito…”?

Abbiamo dovuto compiere azioni di pensiero attivo (ed è stato faticoso, molto faticoso) per comprendere quale potesse essere lo spazio e il compito di Carrozzeria Orfeo durante l’emergenza.

Inoltre, c’è il grande tema della responsabilità: se per tutta la vita professi che il tuo lavoro è portatore di atti civili e politici… che il teatro e la cultura vanno difesi perché NECESSARI a una società e continui a riempirti la bocca di paroloni a difesa dell’arte, poi quando c’è bisogno davvero di te, quando vedi che la collettività sta perdendo la bussola, hai il dovere etico (nel tuo piccolo) di intervenire, giusto? Devi essere presente alla collettività, devi prenderti quella maledetta responsabilità che il ruolo ti impone: essere portatore di bellezza, propositore di stimoli, di contenuti, di riflessioni, di creatività, di fiducia.

Non puoi fregartene e rinchiuderti su Facebook a fare polemiche inutili sui poveri lavoratori dello spettacolo abbandonati e maltrattati da tutti. Non puoi lottare solo sui social leggendo poesie mute (tra l’altro molte di queste, anche se mute, lette comunque malissimo!) per portare avanti le tue piccole battaglie. Non solo, almeno. Io queste forme di vittimismo le odio. Molti artisti, ogni santa volta, finiscono per omologarsi in queste patetiche catene di Sant’Antonio social dove tutti iniziano a pensarla uguale (l’esatto contrario di ciò che dovrebbero fare, ovvero ragionare in modo indipendente) e autoghettizzarsi nelle loro piccole battaglie autoreferenziali di categoria. Attenzione, questo non significa che noi tutti non abbiamo dei diritti da difendere, ci mancherebbe, e che non sia giusto battagliare per farseli riconoscere! Dico solo che ho da sempre la spiacevole impressione e il sospetto che in momenti come quello che stiamo vivendo, siano molti di più quelli che fuggono nelle loro zone di confort, piuttosto di quelli che tentano, almeno, di tener fede ai principi in cui credono e che professano. La seconda via è più faticosa: a nessuno piace quando gli sconvolgono la vita…la mancanza di lavoro, di soldi, di progettualità, l’angoscia per il futuro…ma la scelta individuale è l’unica cosa fondamentale. Aspettiamo che qualcosa piova dal cielo o proviamo a trasformare ciò che ci accade in energia pulita? Perché se il nostro è un mestiere che ci deve essere riconosciuto, come tanto affermiamo, deve essere un mestiere anche quando non ne abbiamo voglia, anche quando dobbiamo, appunto, ripensarlo davvero.

Come è nata l’idea del bando e che tipo di risposte immaginate possano arrivare?

In questo momento in cui è difficile definire quali saranno le prospettive del teatro, i suoi tempi di riapertura e le nuove modalità di partecipazione agli spettacoli, Carrozzeria Orfeo ha deciso di impegnarsi in una nuova sfida per intercettare il maggior numero di sensibilità possibili e coinvolgerle all’interno di un percorso virtuoso che possa indagare creativamente le disfunzioni del presente con lucidità critica, fantasia e ironia.  Ci siamo interrogati a lungo sulla possibilità di mantenere vivo il contatto con il nostro pubblico, con i colleghi, gli operatori del settore e, più in generale, con la cittadinanza in un momento in cui il linguaggio attraverso il quale ci siamo sempre espressi, il teatro, è impossibile da praticare. Contestualmente, non volevamo e non vogliamo incorrere nel pericolo di affidarci totalmente al caotico mondo della rete, ormai già saturo di spettacoli online e dirette social. Abbiamo, quindi, deciso di farci promotori di Prove generali di solitudine un’iniziativa che, al contrario e per una volta, ci vede dietro le quinte, in veste di organizzatori. Per contribuire attivamente all’emergenza che il mondo della cultura si trova ad affrontare, forti della nostra esperienza e di una struttura organizzativa solida e preparata, così come di collaborazioni autorevoli che ci accompagnano, abbiamo dato vita ad un Concorso di scrittura teatrale aperto a tutti, realizzato con il sostegno di Fondazione Cariplo, Marche Teatro, Teatro dell’Elfo, Teatro Bellini di Napoli, Teatro Nazionale di Genova e in collaborazione con PAC Paneacquaculture.net.

L’obiettivo primario è quello di trasformare le innumerevoli esperienze soggettive prodotte dal cosiddetto lockdown, in materiale artistico condivisibile, stimolare la comunità all’approfondimento individuale e contrastare le potenziali derive superficiali alle quali la comunicazione moderna spesso ci espone. Le risposte arrivate sono ad ora già molto confortanti: alla prima fase del Concorso hanno già aderito 400 partecipanti. Ciò significa che in totale riusciremo a coinvolgere almeno 1000 persone. Questo non cambierà le sorti del mondo e non inciderà di certo sulla politica dei grandi numeri, ma saranno comunque mille cittadini con cui avremo condiviso, o tentato almeno di condividere, qualcosa di molto concreto e tangibile, qualcosa che ha provato a sottrarli a una potenziale passività.

illustrazione di Federico Bassi

Ad inizio pandemia un articolo della regista e drammaturga Calamaro postulava la non narrabilità di questa esperienza da parte del teatro. Sembra che abbiate una idea diversa o che questo bando comunque solleciti una risposta invece diversa. Si può raccontare questa esperienza senza scivolare nel gorgo della didascalia?

In linea generale penso che nessun artista o intellettuale abbia il diritto di definire ciò che possa essere indagato o meno attraverso la scrittura. Nessuno può tracciare un regolamento sui temi da affrontare o, peggio, censurarli a priori.  Anche perché qualunque artista comprende chiaramente il fatto che non esistono nell’arte tematiche più nobili o adatte di altre su cui scrivere, in quanto tutto ruota esclusivamente intorno al “come” queste vengono sviluppate e alla sensibilità individuale dell’artista che ogni qual volta si immerge in una nuova sfida può potenzialmente generare un fallimento o un capolavoro a prescindere dal tema di partenza. La riflessione (pur legittima) di Lucia Calamaro, quindi, non mi trova assolutamente d’accordo perché se negli anni ‘40 qualcuno avesse stabilito che non si fosse potuto parlare di nazismo, oggi non potremmo godere di un’opera assoluta come “Il grande dittatore” di Charles Chaplin (1940). Insomma, qualunque tema può precipitare potenzialmente nel gorgo della didascalia, mi sembra ovvio. Però, e c’è un grande “però”, leggo tra le righe della sua dichiarazione (se ho ben interpretato il suo pensiero) qualcosa di più profondo di ciò che ha scatenato il confronto in Rete. Intercetto infatti la preoccupazione di un’artista, che condivido pienamente, rispetto ad un paese (il nostro) e a molti autori, che spesso e senza alcun amor proprio hanno rielaborato il presente con l’unico scopo di strizzare l’occhio al mercato inondandolo, purtroppo, di molte opere banali e stereotipi. La Mafia ad esempio, è un nostro grande cavallo di battaglia e la serialità televisiva italiana, a parte rarissime eccezioni, ancora oggi non riesce ad andare oltre a temi come la Mafia, la Polizia e i Preti. Anche a teatro, purtroppo, ci è capitato spesso di assistere ad opere che intendevano esclusivamente cavalcare il fenomeno e il tema del momento per aggiudicarsi finalmente uno spazio di riconoscibilità e assecondare gli istinti più bassi del pubblico.

Condivido quindi il timore che in molti, per adeguarsi alle spietate leggi del mercato e soddisfare la fame delle masse e dei propri ego, daranno vita a innumerevoli opere sul Coronavirus, strumentalizzando la tematica e al tempo stesso impoverendola. È una preoccupazione legittima che in molti casi può generare anche rabbia, schifo, delusione e repulsione. Per chi ama davvero la scrittura potrebbe essere molto doloroso e triste assistere alla sfilata di tanti colleghi che scriveranno dell’emergenza per “sfruttarla” a loro favore.

Detto ciò, però, è un rischio, che dobbiamo comunque correre nella speranza che tra le molte “delusioni” affiori qualcosa di interessante. Il nostro Concorso Prove generali di solitudine intende fare proprio questo: dar voce a tutti quei cittadini (professionisti o non professionisti) che hanno voglia di confrontarsi creativamente con la propria esperienza confidando nel fatto che i nostri stimoli diventino per loro il punto di partenza per una riflessione più ampia e profonda su loro stessi e sul mondo. Questo avverrà? Certamente solo in minima parte, è chiaro, non siamo né degli sprovveduti, né dei ciechi sognatori e sappiamo benissimo che un progetto aperto a tutti intercetta al tempo stesso proposte interessanti e pagine di discutibile qualità. Ma, già dalle premesse, abbiamo provato ad essere chiari: non cerchiamo il capolavoro dell’anno (anche se speriamo che arrivi), vi stiamo solo proponendo un gioco.

Come si potrà riprendere il teatro da questa drammatica pausa? Sarà possibile secondo voi riscrivere le regole non scritte ma purtroppo invalse nella pratica della circuitazione o tutto tornerà come prima?

Il rischio è che tutto peggiori come negli altri settori e, più in generale, nel mondo. Il reale pericolo è che la forbice della disuguaglianza si allarghi ulteriormente: i ricchi resteranno ricchi perché l’emergenza li avrà colpiti solo di striscio intaccando una minima parte delle loro risorse mentre i poveri saranno definitivamente più poveri, indifesi e privi di strumenti reali per potersi rialzare. Questo, naturalmente, vale anche per il teatro: se non si interverrà adeguatamente per favorire e garantire una ripresa non esclusivamente dall’alto, i grandi teatri si concentreranno sull’autotutela incentivando ulteriormente gli scambi tra loro per recuperare l’ultima parte di circuitazione delle loro produzioni persa durante l’emergenza e ristabilire il loro potere sul mercato. I piccoli teatri e le piccole compagnie, a quel punto, già molto fragili prima dell’epidemia, saranno ancora più esclusi. Ma quello degli scambi è un problema antico che rischia solamente di peggiorare. Quando i grandi teatri esagerano nello scambiarsi spettacoli per garantire visibilità alle proprie produzioni accadono due cose spiacevoli: gli spazi di ospitalità nei loro cartelloni si riducono drasticamente tagliando fuori tutto il resto e reprimendo la molteplicità e, non meno grave, si immettono sul mercato diversi progetti di dubbia qualità che non sarebbero mai stati ospitati fuori dall’ottica del reciproco interesse. Gli scambi, infine, sono fondamentalmente un esercizio di potere asfissiante che andrebbe assolutamente limitato per favorire la crescita di qualcosa di nuovo.

Ma c’è un altro aspetto importante che contribuirà a inasprire la disuguaglianza tra grandi e piccoli e che concerne le possibili norme di sicurezza e distanziamento del pubblico. Mentre un teatro da 800 posti sostenuto dal Ministero si riadatterà momentaneamente diventando uno spazio da 300 posti per garantire le distanze, un piccolo teatro da 100 posti non sovvenzionato da nessuno (o poco sovvenzionato) come potrà sopravvivere se gli verrà imposto di accogliere massimo 15 spettatori a sera? Ancora una volta, quindi, ci si rende conto di quanto sia indispensabile, mai come ora, ridiscutere le regole del gioco.

 

Prove generali di solitudine vuole dar voce a tutti quei “semireclusi” che intendono raccogliere la sfida di trasformare queste parole/slogan in arte e pensiero critico.

L’obiettivo primario è quello di trasformare le innumerevoli esperienze soggettive prodotte dal cosiddetto lockdown, in materiale artistico condivisibile, stimolare la comunità all’approfondimento individuale e contrastare le potenziali derive superficiali alle quali la comunicazione moderna spesso ci espone.  

Ogni parola chiave sarà accompagnata da uno stimolo drammaturgico (un breve brano, una poesia o una riflessione) selezionato dal drammaturgo della compagnia Gabriele Di Luca; da uno stimolo musicale originale composto da Massimiliano Setti e da uno stimolo grafico proposto dall’illustratore Federico Bassi, come ulteriori spunti iniziali ai quali “aggrapparsi” per indagare al meglio il tema/parola proposto.

Una volta ricevuto il materiale, gli autori avranno una settimana di tempo per inviare un monologo di massimo quattro pagine ispirandosi alla forma della stand-up comedy che durante la settimana successiva sarà valutato da una Giuria interna formata dagli attori e dai collaboratori di Carrozzeria Orfeo (Angela Ciaburri, Beatrice Schiros, Aleph Viola, Paolo Li Volsi, Alessandro Federico, Francesca Turrini, Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti,Raffaella Ilari, Natascia Sollecito Mascetti) e presieduta di volta in volta da una personalità del mondo dello spettacolo: Luca Zingaretti, Vinicio Marchioni, Paola Minaccioni, Lino Guanciale.

Ogni due settimane sarà decretata una terzina di vincitori che riceverà un Premio in denaro. Al termine ai dodici finalisti, compatibilmente con i prossimi decreti ministeriali, sarà chiesto di sviluppare ulteriormente i propri testi in vista di una futura messa in scena.

I testi vincitori di ciascuna fase saranno pubblicati sulla rivista online PAC Paneacquaculture.net.