GIORGIO FRANCHI | Negli incontri BDSM (sadomasochisti, per chi è passato indenne attraverso l’era oscura di Cinquanta sfumature di grigio), la safe word è la parola che, pronunciata, fa finire immediatamente il rapporto. Concordata prima di cominciare – così da avere un modo chiaro per segnalare che ci si è spinti oltre la linea del consenso – essa deve essere completamente inequivocabile, dunque diversa da stop, basta e altre interiezioni che potrebbero essere pronunciate senza l’effettiva volontà di chiuderla lì.

Per moltissimi americani la safe word è pineapple, ‘ananas’, tanto che ha dato il nome alla Pineapple Support Society, azienda di consulenza psicologica per le lavoratrici e i lavoratori dell’industria dei film a luci rosse. Anche i non amanti di lattice e frustini possono usare una safe word in contesti diversi. Quando un amico pittore dilettante ci mostra la sua ultima creazione, un ritratto dell’amata che probabilmente lo condurrà a un celere divorzio con tanto di lancio delle fedi nel Monte Fato, illustrandoci per tre quarti d’ora il sapiente gioco di chiaroscuri caravaggeschi che lui, e solo lui, vede nella sua stessa opera. Per esempio.

In inglese la safe word, nove volte su dieci, è cool. Parlate con un londinese per cinque minuti di qualcosa che non gli interessa e vi sentirete liquidati da un Yeah, that’s cool. Per una curiosa combinazione, il fatto che cool significhi sia figo sia freddo – in termini fisici, quanto emotivi – fa associare questa safe word al consiglio di “raffreddarsi”, “spegnersi”. Non è questo il significato originale (tutt’al più sarebbe quello del chill!, usato per suggerire a qualcuno di calmarsi), ma è una di quelle coincidenze per cui il significato si distacca dall’etimologia tanto da fare il giro e incontrarla la seconda volta.

In italiano questa parola “magica” è sicuramente interessante. Aggettivo salvifico che permette di uscirsene da qualsiasi discussione, poiché significa tutto e il contrario di tutto. Interessante, cioè che genera interesse. Vale per una tavola del Mantegna quanto per un guasto dell’automobile. Una recensione che giudica interessante un film può suggerire che siamo in odore di Oscar o che i Lumiére si stanno rivoltando nella tomba. Il nostro amico pittore sarà contento di essere giudicato interessante e noi non gli avremo mentito troppo. In questi giorni interessante si legge ovunque. Non per la paura di esprimere un giudizio, ma perché tutti noi ci troviamo, senza troppe distinzioni per la prima volta da anni, a non sapere assolutamente nulla di quello che accadrà domani. E le previsioni sono tutt’altro che rassicuranti.

Dal momento che questa società non concepisce il tacere come una possibilità, interessante accorre in nostro aiuto ogni volta che esprimiamo una premonizione. È la safe word che trasla ogni discussione su un piano razionale e asettico, come le pareti acquamarina degli studi dentistici che fanno dimenticare gli schizzi di sangue e saliva. È interessante, ad esempio, pensare a quale influenza avrà il covid sulla nostra vita. Le immagini dei suicidi per la crisi lasciano il posto a una candida speculazione su un futuro fantascientifico alla Isaac Asimov. Interessante è immaginarsi gli sviluppi del teatro dopo la pandemia: lo sguardo si sposta dalle macerie dei tantissimi che non ce la faranno alla caccia del nuovo fenomeno, unico fra molti, che inventerà un linguaggio fruibile attraverso un pannello di plexiglass. Interessante è riflettere su uno stile di vita più sostenibile per il pianeta. Interessante è prevedere il futuro dell’Europa unita. Interessante è analizzare la questione razziale negli Stati Uniti.

Ma la cosa più interessante, forse, è l’etimologia di interessante. Come intuibile, viene dal latino inter esse, ‘essere in mezzo’, ovvero ‘partecipare’. Insomma, l’ormai non più giovanilistico “ci sta dentro”. Ed è interessante di interessante che sia ormai assurto a uscita di emergenza per sottrarsi all’incombere della realtà. Un nero in America non definirebbe mai interessanti gli scontri razziali di Minneapolis, un opinionista bianco in Europa sì. In balia di un’epoca in cui le minacce diventano globali, un’epoca che lascerà ferite sul corpo di tutti, come in una sindrome post-traumatica collettiva cerchiamo di rimuovere l’accaduto. Ma siccome il trauma non è ancora avvenuto, tutto ciò che ci rimane è rimuovere noi stessi. Non farci più essere inter, ma extra, fuori, lontani.