LAURA BEVIONE | Il termoscanner segnala che la mia temperatura è 36,7: non ho febbre e posso affacciarmi al botteghino per ritirare il mio biglietto. Dopo più di tre mesi – l’ultima volta è stato il 23 febbraio scorso – rimetto piede in un luogo per me familiare e rassicurante e l’emozione è inevitabile.

Nel foyer del Teatro Carignano di Torino incontro amici e colleghi che, dal vivo, non vedevo da tempo: vorremmo abbracciarci ma quella regola che è oramai diventata razionale e auto-conservativo istinto di sopravvivenza repentinamente ci blocca e allora l’affetto passa attraverso un esplicito brillio degli occhi, accessi e vitali sopra la mascherina.
Nel foyer, però, non ci si può fermare troppo, si creano facilmente assembramenti e allora entro subito in sala.

Di solito non ho difficoltà a trovare il mio posto ma questa volta mi serve l’ausilio della maschera: i duecento posti della platea del teatro sono stati ridotti a sessanta, abbassando gli schienali delle poltrone “proibite” e garantendo così il distanziamento. Nei palchi, invece, affetti stabili, non necessariamente confermati dallo stato civile.
Mi sistemo nella mia poltrona che ora mi garantisce l’agio di un posto in business: certo non c’è più il rischio di vicini poco riservati e invadenti ma l’effetto è un po’ straniante…

Il teatro, comunque, è pieno e il calore della viva presenza umana e il basso continuo delle chiacchiere pre-spettacolo rincuorano e riportano a una situazione un tempo familiare.

Andare a teatro, vivere il foyer, riempire con la conversazione o la lettura del programma di sala l’attesa dell’alzata di sipario: azioni che ricominciamo a compiere, anche se indossiamo la mascherina e non ci tocchiamo; eppure la felicità di tornare alla mia routine è annebbiata da una fosca pensosità.

Foto di Luigi De Palma

Leggo il foglio che, all’entrata del Carignano, mi hanno consegnato i rappresentanti dei lavoratori dello spettacolo del Piemonte, impegnati in un pacifico presidio di fronte al teatro: gli spettatori vengono ringraziati per la “fiducia” con cui sono tornati in una sala teatrale ma viene loro ricordato che il 70% circa delle realtà artistiche medie e piccole non è attualmente in grado di ripartire. Il documento si conclude così: «in questa emergenza, la dignità va garantita anche a chi è impossibilitato a lavorare».
Ecco, dignità, sicurezza, salute. Le istanze di questi lavoratori sono le medesime di molte altre categorie: il minimo comune denominatore è l’appartenenza a quell’area grigia e fluttuante composta da coloro – molti in verità – che, per necessità ovvero per scelta, hanno un’occupazione non garantita – partita iva, co.co.co e tutta l’infinita galassia della precarietà…
Realtà magari innovative e creative ma inevitabilmente piccole e fragili, magari appena sbocciate e ora troppo repentinamente rinsecchite causa Covid-19. Realtà che, in molti casi, concorrono a modernizzare strutture, procedimenti, modalità sclerotizzati.
Un’energia innovativa che la pandemia rischia di esaurire, compromettendo così pure l’auspicata “ripartenza” e rinascita del Paese, legandolo ancora più strettamente a quegli arcaismi che in molti settori ne impediscono il salto in una contemporaneità efficiente e, soprattutto, fondata su merito e inventività.

I pensieri corrono lontano, a immaginare un’Italia che sia finalmente capace di riconoscere e valorizzare i suoi talenti….

Ma ecco che sul palco appare Valerio Binasco, consulente artistico del Teatro Stabile di Torino, visibilmente emozionato. Prima di calarsi nei panni del giornalista Marco protagonista de L’intervista, il testo di Natalia Ginzburg che lui stesso ha scelto per riaprire il Carignano, Binasco vuole guardare la sala, di nuovo “abitata”, e salutare noi spettatori, condividere con noi la sua gioia.

Lo spettacolo non soltanto torna a occupare il Carignano, ma apre pure Summer Plays, la rassegna estiva – si concluderà il 15 settembre – rapidamente organizzata da Teatro Stabile e Fondazione TPE per riattivare lo spettacolo dal vivo a Torino, offrendo opportunità di lavoro a molti artisti locali e riaccendendo il gusto per il teatro nel pubblico.
Un «rischio culturale», aveva detto nella conferenza stampa di presentazione Valter Malosti, direttore artistico di TPE, che ha ammesso di aver vinto le proprie iniziali perplessità perché convinto dalla propria «voglia di affrontare l’ignoto e di andare avanti», mentre il direttore dello Stabile di Torino aveva parlato di una «proposta di progetto e di processo», caratterizzata da «serietà e sobrietà».

E sobrietà è termine adatto a definire la messa in scena realizzata da Binasco per inaugurare queste pièce/giochi – plays – d’estate: uno spettacolo essenziale ma non dimesso, lontano da istrionismo o protagonismi a favore di un’entusiasta e generosa adesione a personaggi fragili e in certa misura “malati” coinvolti in tre atti che ripropongono, a distanza di un intervallo temporale ognora crescente, una situazione uguale eppure profondamente diversa.

Foto di Luigi De Palma

Binasco e le sue due compagne di palcoscenico –  Arianna Scommegna e Giordana Faggiano – sanno ben ricreare quel lucido e malinconico sguardo che Natalia Ginzburg seppe gettare su sentimenti timidi o irrazionali, moventi labili o egocentrici, timori paralizzanti e vite non vissute, bisogno di riconoscimento e di consolazione.
Un testo dolceamaro, che svela come alla consapevolezza della necessità di un cambiamento non sempre corrispondano la forza e il coraggio per compierlo realmente. Una verità che risuona come monito dolcemente severo in questi giorni in cui da ogni parte si auspica che nulla ritorni come prima.

Intanto, dopo la commozione degli applausi, prolungati e non di prammatica, e le lacrime non trattenute della giovane Giordana Faggiano, mi riavvio verso casa e la pensosità di due ore prima diventa meno fosca, non troppo illuminata ma ben scontornata: è necessario tornare a teatro, luogo privilegiato in cui la comunità può fisicamente incontrarsi e riconoscersi guardandosi negli occhi, ma è fondamentale farlo con la consapevolezza che questo spazio non è – come stava per diventare o forse era già diventato – sconsacrata cattedrale in cui si celebra uno stanco rito alto-borghese, bensì fertile arena di incontro, confronto e scontro.
Un luogo in cui la comunità sappia mettersi in discussione e ripensarsi, ridefinendo costantemente la propria umana dignità.

Ripartire deve significare ripensarsi e ridisegnarsi, per non tornare come prima…


L’INTERVISTA

di Natalia Ginzburg
regia Valerio Binasco
scene e luci Jacopo Valsania
costumi Sandra Cardini
con Arianna Scommegna, Valerio Binasco, Giordana Faggiano
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Teatro Carignano, Torino
15 giugno 2020