ILENA AMBROSIO | Uno spazio riempito da mobili accatastati e oggetti sparsi alla rinfusa. Al centro un arco intrecciato di fiori; davanti un tavolo e due sedie. Nella penombra due figure maschili indossano, lentamente, i propri costumi: uno, una giacca da smoking su canottiera e pantaloni lisi, l’altro un abito da sposa e una parrucca. Portano avanti una torta con una candelina a forma di otto e intanto una voce di bambino canta, con insistenza, Mi chiamo Lola e son spagnola…

Ci si sente già inquieti, senza coglierne bene il perché, di fronte a questa prima immagine  (pittorica, bellissima la scena firmata da Mela Dell’Erba) di ‘A Cirimonia di Rosario Palazzolo, diretto e interpretato da Enzo Vetrano e Stefano Randisi e andato in scena, in prima assoluta, al Napoli Teatro Festival.
Un’inquietudine indefinita, vaga, e poetica in questa vaghezza, serpeggia lungo tutto l’arco drammaturgico del testo. Anzi, non un arco, ma un cerchio in cui le cose tornano e l’inizio coincide con la fine. Un turbamento che ha a che fare con il passato, con ricordi rimossi, con un ciarpame di vissuto che, rinchiuso nella soffitta dell’inconscio, fuoriesce dai cassetti, spinge contro le ante degli armadi e, tuttavia, non si lascia afferrare, sfugge a una ragione che lo aborre.

Foto Ilena Ambrosio

È possibile, nella chincaglieria della memoria, ritrovare ciò che si ostina a rimanere celato? Recuperare un ricordo nitido, preciso; riportarlo alla luce per distinguerne i contorni?
Ci provano i due personaggi disegnati da Palazzolo, rivivendo il proprio passato in un rituale che vorrebbe, come in un eterno ritorno, riportarlo al presente e riconoscerlo, affrontarlo; per redimersi. «Ogni anno, una volta all’anno, ogni anno oggi» ‘U Masculu e ‘A Fimmina celebrano, meglio, inscenano un festeggiamento, una «cirimonia» che si ripete sempre uguale: indossano gli stessi abiti, pronunciano le medesime parole come fossero formule magiche o battute di un copione, compiono gli stessi gesti.
Ripetizione. La ripetizione come strategia psicologica che recupera il rimosso. La ripetizione del rito, della festa come rievocazione di un evento fondante. La ripetizione che è il teatro, nel quale qualcosa si rifà e, rifacendosi, ritorna.
Tutte messe in scena a pensarci bene, ciascuna a proprio modo terapeutica, catartica, e che ritroviamo finemente intrecciate in una drammaturgia dall’andatura claudicante, che solo a singhiozzi, un passo incerto dopo l’altro, svela l’identità dei due, il loro rapporto, il filo logico che lega le loro azioni. Come in un giallo, in cui gli indizi si compongono progressivamente a formare il puzzle finale; o come in un sogno, in cui, una voce, una parola, persino un volto, acquistano senso e definizione solo una volta svegli.

Foto G. Cennamo

Il testo, sintatticamente semplice ma logicamente intricato, a tratti spassoso nel suo colore siculo, procede come un’ossessione, come l’attesa estenuante – un continuo beckettiano «dobbiamo aspettare» – dello svelamento di un evento che, lo sentiamo sempre più distintamente, fu orribile, indicibile; poi si inceppa, in quegli  “incantamenti” (come da didascalia) della memoria che gira a vuoto, della testa quando è «vacante e pure piena»; poi si placa per di nuovo precipitare, furioso fino a un epilogo che non può che essere un’implosione.
Un flusso che pare seguire gli intricati solchi della corteccia cerebrale, perché in una parte recondita della mente cerca di insinuarsi; perciò complesso ma, proprio per questa complessità, straordinariamente efficace nel porsi, già strutturalmente, come correlativo oggettivo della sua labirintica parabola narrativa.

In questo flusso la regia e l’interpretazione di Vetrano e Randisi materializzano le figure protagoniste con un che di lieve e spontaneo che ce le rende quasi familiari, simpatiche nei loro apparentemente insensati scambi in siciliano. Ma proprio la naturalezza addensa l’inquietudine, acuisce lo stridore: una cifra interpretativa che sa restituire con vividezza l’effetto straniante del testo. Sotto il velo della spontaneità gli interpreti lasciano abilmente trapelare qualcosa d’altro. Quella Fimmina (Vetrano) in abito da sposa, che continua a riferirsi a sé al maschile, la sua indifesa ingenuità che ha del femminile ma anche dell’infantile; la rozzezza di ‘U Masculu (Randisi), gli scatti d’ira che irrompono come reflussi di una magma ribollente di rabbia e violenza: cosa vogliono dirci? Di quale passato sono il retaggio?
In una tale, calibratissima sospensione del giudizio e finanche della comprensione, con la consueta sintonia per la quale la parola e il gesto dell’uno si fanno naturale estensione di quelli dell’altro, Vetrano e Randisi danno corpo a questi due grumi di paura e terrore, di rancore ma anche di affetto, adattandosi al ritmo ora lento, ora incalzante, ora precipitoso del testo, restituendone tutta la crudeltà.

Foto G. Cennamo

In completa simbiosi con la scena, i gesti nitidi, spontanei, mai grotteschi eppure espressionisticamente icastici vibrano di un’elettricità sinistra che pare propagarsi da un disegno luci – di Max Mugnai – mutante in netti chiaroscuri, improvvisi bui, repentini raggelamenti; lucori “parlanti” che, come a fornire ulteriori indizi, si posano su un’espressione del volto, su una posa, su un oggetto – una smorfia di spavento, un coltello che riflette la luce sulla sua lama, una scarpa da donna sulla sinistra, una cassetta degli attrezzi, frammenti di giornale…
Al contempo un’energia dolce-amara riempie la dimensione sonora e musicale curata da Gianluca Misiti: uno spazio che pare avere vita a sé rispetto al procedere scenico se proprio in esso si disvela, forse, in maniera più compiuta e immediata la verità. La voce cantilenante di un bambino (o di una bambina?) e quella «arraggiata… incarognita» di un uomo che racconta «di morti ammazzati» interrompendo languide canzoni d’amore – splendide le interpretazioni di Raffaella Misiti – sembrano sopraggiungere in scena direttamente dal quel passato che incalza, che preme contro cassetti e ante per liberarsi dai mobili della soffitta. Quelle voci si gonfiano, progressivamente, si fanno prepotenti e invadono lo spazio, la mente dei personaggi, si impossessano del loro agire e il passato pare, finalmente, ritornare. Ma come si può accettarlo? Come si può, persino, riviverlo? Il grido, straziato di un bambino… Il buio della scena e, di nuovo, della memoria.

In quel grido, in quel buio l’orrenda agnizione. Le parole reiterate, i gesti che sembravano insensati, le melodie inceppate, le relazioni ambigue, i frammenti confusamente sparsi dei ricordi si ricompongono in un quadro mostruoso dipinto dalle tinte, adesso vivide e accese, di quella subdola inquietudine che fino a ora aveva serpeggiato sotto la pelle.
La rimozione è strategia di sopravvivenza, rende cieca la memoria di fronte a ciò che la ragione non può sostenere. E allora la verità diventa labile, sfuggente, impossibile da afferrare.
Non resta che riporre tutto nei cassetti, rinserrare la soffitta, dimenticare di nuovo.
E ricominciare la messa in scena.

 

‘A CIRIMONIA
L’impossibilità della verità

di Rosario Palazzolo
interpretazione e regia Enzo Vetrano, Stefano Randisi
scene e costumi Mela Dell’Erba
luci Max Mugnai
musiche e suono Gianluca Misiti
elettricista Antonio Rinaldi
assistente volontaria Elena Patacchini
Lle canzoni dello spettacolo sono cantate da Raffaella Misiti
le voci registrate sono di Rosario Palazzolo e del piccolo Alberto Pandolfo
durata: 80′

Napoli Teatro Festival 2020
Palazzo Reale – Cortile delle Carrozze, Napoli
26, 27 luglio – prima assoluta