ANTONIO CRETELLA | A chi, armato di una biblica pazienza e da un’alta soglia di tolleranza alla nausea, volesse spulciare la mole di progetti e progettini che annualmente giacciono in attesa di protocollo sulle scrivanie delle scuole, salterà subito all’occhio la ricorrenza quasi ossessiva dei termini digitale, digitalizzazione: progetti per la costruzione o il rafforzamento di una rete digitale, la digitalizzazione dei documenti, la digitalizzazione dei polverosi archivi in una progressiva smaterializzazione del comparto. Una prospettiva che ha una sua logica e indubbi vantaggi ma che, di anno in anno, si è allargata in palesi forzature volte ad ammantare di un’allure di modernità ogni minima progettualità sconfinando inesorabilmente nel ridicolo, quando, per esempio si definisce con una certa prosopopea “digitalizzazione delle comunicazioni” il telefonare a un genitore, o “modalità asincrona di diffusione” il mandare un messaggino di avviso. Di pari passo all’aggettivo smart, il digitale è diventato un sottogenere specializzato del burocratese, una nuova foglia di fico sotto cui nascondere una pochezza progettuale completamente cieca alle reali esigenze della scuola (o di qualunque altro comparto pubblico), anche quando la digitalizzazione potrebbe rappresentare una risposta sensata ad alcuni problemi, ma non la panacea contro tutti i mali, e diventa tanto più odiosa quanto più a parlare di transizione digitale sono persone che, duole dirlo, hanno problemi anche con quell’originario e primigenio contare sulla punta delle dita.