RENZO FRANCABANDERA | «Muoverci in una direzione capace di mantenere vivo il corpo del festival, della città, dell’artista e dello spettatore ci ha portati a creare 2 week end, il primo attento ad esplorare alcune progettualità artistiche in divenire, il secondo organizzato in 4 giornate in cui entrare più a fondo nelle dinamiche del processo creativo di uno spettacolo. Per ogni giornata la sezione teatro-danza-performance sceglie un artista e condivide con lui 3 diversi momenti che potremmo intitolare idealmente “mente”, “corpo” e “visione”: un incontro in cui analizzare, con la guida preziosa di Roberto Fratini Serafide, il processo creativo e il tema centrale che ha ispirato lo spettacolo presente al festival, un workshop in cui osservare e condividere le tecniche di creazione e il lavoro sul corpo, e infine lo spettacolo».
Questa è in sintesi, per la XVII edizione, l’idea che hanno scelto i curatori di Ipercorpo 2020: Mara Serina e Claudio Angelini per la Danza e il Teatro, con la collaborazione di Valentina Bravetti; Davide Ferri per l’Arte; Davide Fabbri ed Elisa Gandini per la Musica. L’obiettivo è provare a mantenere in vita una creatura preziosa e dalle caratteristiche assai peculiari.
Ipercorpo :: Tempo Reale, è il titolo dell’edizione che ha una parte autunnale, che si chiude in questo weekend, e una primaverile, che avrà luogo l’anno prossimo; si svolge negli spazi all’aperto dell’ex deposito EXATR e in parte nel futuro auditorium dell’EXGIL (ex Casa Stadio dell’Opera Nazionale Balilla, importante edificio razionalista progettato negli anni Trenta dall’architetto Cesare Valle). Due momenti distinti, ma collegati, per progettare un’edizione diversa e più estesa nel tempo.

Il tema del Festival è il Tempo Reale, stimolando gli artisti ad un pensiero anche sul nuovo modo necessario per produrre e veicolare altre modalità di fare arte dal vivo oggi.
Nè è nato un festival che non è più contenitore di eventi, ma opportunità per conoscere più da vicino gli artisti, fare un percorso quasi intimo con loro, nel tentativo di rafforzare la relazione fra creatori e fruitori delle opere.

Abbiamo intervistato Claudio Angelini, fondatore del collettivo forlivese Città di Ebla, compagnia fra quelle che quasi vent’anni fa diedero avvio al Festival, cui è affidata la cura e la co-direzione artistica del Festival.

 

Marco Valerio Amico (Gruppo Nanou) e Claudio Angelini – ph Gianluca Naphtalina Camporesi

Ipercorpo è uno dei festival nati intorno alla generazione che quasi venti anni fa aveva favorito, se non l’introduzione, almeno la diffusione in Italia di una serie di pratiche e di culture del pensiero scenico fra le compagnie emergenti. Cosa resta di quell’impulso iniziale, in un’edizione così particolare come quella di quest’anno?

Resta tutto niente, contemporaneamente. Non resta niente dell’impianto originario: cui le sezioni di arte, musica, teatro sono andate mutando via via negli ultimi quindici anni. Sono cambiate le figure curatoriali, la loro cifra anagrafica, e la dislocazione fisica, con un festival sostanzialmente  trasmigrato negli spazi EXATR.
Quello che non è cambiato, forse, è lo spirito originario, transdisciplinare, che guardava al teatro come casa di accoglienza di tutte le arti, e che tendeva naturalmente ad avvicinare altre forme di arte alla dimensione di palco. Certamente un punto che ci ha sempre contraddistinto è stato l’essere sempre in presenza, dal vivo, cosa che in un qualche modo vale, anche in questa edizione, per gli artisti di arte contemporanea selezionati, chiamati a dialogare con il curatore davanti all’opera.
 
Avete scelto una serie di artisti e dei percorsi, per così dire, monografici, di attraversamento del linguaggio. Ogni giorno un artista. Come sono stati scelti? Perchè proprio loro, oggi?
 
Dal nostro punto di vista questi artisti scelti, ciascuno nel proprio linguaggio, propongono, con il loro lavoro, un’idea sul tempo reale; cioè mettono il loro lavoro alla prova di un tempo, mettono lo spettatore di fronte ad un’operazione creativa che riflette non solo sullo spazio della creazione, ma anche sul suo tempo. E questo vale anche per gli artisti coinvolti nei progetti musicali e di arte contemporanea.
 
Città di Ebla è una compagnia radicata anche nelle pratiche denoto lo spazio urbano. A differenza di altri, che in questi venti anni hanno lavorato molto sull’idea dello spettacolo, voi vi siete concentrati apparentemente molto di più sul tema della pratica, compreso il nesso fra arte e territorio. È davvero così?
 
Città di Ebla è un collettivo a geometria più o meno variabile, di cui non so dire se davvero si sia concentrata solo o fondamentalmente sul nesso fra arte e territorio.
Sia con i soggetti che hanno dato origine al progetto che con altre figure chiamate via via a collaborare, si sono create progettualità di cui Ipercorpo è il momento apicale. Ma Città di Ebla organizza anche simposi, assiste altri festival come Mosto, ripristinato opere di street art: c’è sicuramente un’azione che riguarda il territorio, ma non c’è mai stato un pensiero specifico di carattere territoriale.

ph Gianluca Naphtalina Camporesi

Abbiamo sempre cercato di costruire e di modellare gli spazi del nostro lavoro.
Quindi facendo un festival a Forlì abbiamo lavorato con lo scopo di non subire passivamente i luoghi in cui collocare le opere e gli artisti, ma li abbiamo veramente modellati. Quindi è stato automatico il lavoro relativo agli spazi, così che potessero darci spunti e restituirci una forma di racconto. La nostra attività è stata quindi territoriale non perché volessimo fare delle cose esclusivamente a Forlì, ma semplicemente perchè abbiamo lavorato qui e abbiamo sempre cercato un dialogo con gli spazi che avevamo di volta in volta nella disponibilità.

 
Se il committente pubblico dovesse far venir meno o ridurre, in questo tempo emergenziale, il suo sostegno a chi si occupa di arte nel territorio, tu pensi possano esistere spazi per l’industria creativa o il restringimento dell’alveo di chi pratica è il naturale esito degli accadimenti catastrofici e di crisi? Non sono poche le riflessioni che emergono nel nesso fra arte, economia e società.
È un tema assai complesso su cui occorrerebbe una riflessione ampia e articolata che forse sarà il caso di fare in forma estesa in un altra sede, dedicando al tema la attenzione argomentativa necessaria. Per dirla in breve, la dico un po’ sempre nello stesso modo: se l’arte c’è, l’arte avviene.
Avviene in qualunque condizione, in cui l’uomo, la donna, le persone si trovano a dover operare. Ci sono esempi a noi pervenuti di tentativi mimetici occorsi perfino nei campi di concentramento!
Sicuramente il momento è difficilissimo. È sotto attacco il corpo dal punto di vista bio-politico: credo che pur sapendo che la dimensione dei finanziamenti è sostanziale per portare avanti determinati tipi di percorso che non afferiscono al mercato, bisogna proseguire come se di questo non ci interessasse nulla.
La fonte e la forza di motivazione, l’impulso e il desiderio devono, se sono veri, agire in qualunque tipo di condizione. Anzi probabilmente a volte più le condizioni sono aspre, più si ha chiara la misura di quello che si sta facendo e se ne ritrova il senso.
 
Cosa ti piace pensare che sia  bello per voi fare nei prossimi anni, se non come compimento di un percorso, almeno come puntello necessario di una pratica?

Mi piacerebbe fare quello che ho sempre fatto. Se c’è una specificità che Ipercorpo dice è quella di essere un sistema composito, dove più menti, più cuori lavorano per creare l’oggetto che portiamo al pubblico. Ci sono molti soggetti coinvolti, non solo quelli impegnati nella dimensione curatoriale ma anche la squadra tecnica capitanata da Luca Giovagnoli, organizzativa con Elisa Nicosanti e Neera Pieri, con i ragazzi senegalesi che si occupano della costruzione degli spazi. Questo sistema di intelligenze diffuse, contribuisce, tutto insieme, a dar vita, via via, alle cose, trasforma i pensieri in azione, che sia il Festival, che siano simposi, che siano azioni artistiche, come è stato il progetto Kids’ Houses, di cui ci siamo nutriti e che abbiamo accolto come se fosse qualcosa davvero vicinissimo al sentire di Città di Ebla.

Voglio citare Frie Leysen, figura di riferimento del teatro europeo degli ultimi decenni, e che è stata a Forlì per un nostro simposio nel 2017, la cui recente scomparsa mi ha molto colpito. Era solita dire e lo ha ripetuto anche a Forlì: «Voglio vedere il mondo con cento occhi, non con due!».
Come a dire: mi guardo con gli occhi degli altri. In questo caso parliamo dello sguardo degli artisti ovviamente, ma attraversare le cose con una pluralità di sguardi penso sia il miglior augurio che Città di Ebla debba poter farsi.
Immagino il nostro agire come un articolato sistema urbano la cui ricchezza deriva proprio dalla diversità delle sue zone. Mi hanno sempre affascinato per questo le grandi città, perché non sono una sola cosa, ma sono tante, che vivono insieme, vicine, contaminandosi. La città di Milano è fatta da tante Milano, o Parigi, Londra.
O almeno, così è stato prima che la speculazione edilizia e finanziaria le omologasse. Forse bisognerebbe guardare a metropoli più povere, che conservano le discrasie e le distonie, i salti che ne fanno un sistema meravigliosamente composito nella diversità, quartieri distinti ma legati da un sentimento comune.