ELENA SCOLARI | Se D’Annunzio è stato un uomo notevole e fuori dall’ordinario per molti motivi, non così si può dire di tutte le sue opere. Senza mezzi termini La città morta è una storiaccia noiosa, torbida nel senso meno eccitante del termine, moralista e pedante. Due coppie sono ovviamente non accoppiate come i sentimenti vorrebbero: Alessandro (qui chiamato Gabriele come D’Annunzio, oibò) è sposato con Anna, cieca e sterile, e ama Bianca Maria, sorella di Leonardo, archeologo che scava per trovare non solo reperti ma risposte, il quale pure l’ama incestuosamente; equivoci appiccicosi e gorghi di tormenti portano a un finale con assassinio purificatore e vista riacquistata (e data la situazione conveniva risparmiare sul riacquisto). Un testo barocco, ridondante e ampolloso. E pure un po’ datato.
Come cavare un buono spettacolo da questa tragedia? Ancora non lo sappiamo. Leonardo Lidi sceglie, consapevole di intraprendere un’impresa che potrebbe portarlo a tirarsi la zappa sui piedi, di affrontare le sabbie mobili dannunziane nella prova provocatoria di mettere in scena il fallimento, realizzare un errore, giustamente censurato dalla Storia del teatro (ogni tanto la Storia ci prende).

Così si esprime il regista (vincitore del primo Bando Registi della Biennale) nelle abbondanti pagine pubblicate nel tomo verdognolo della Biennale Teatro 2020:

Chi abita la Città Morta?
Il pubblico, i quattro personaggi o le gloriose maschere del passato?
È questa la domanda che mi pongo quando analizzo il primo testo teatrale di Gabriele D’Annunzio, un tentativo fallimentare di riscrittura della Tragedia passando dal sacrificio di Ifigenia alla verità di Cassandra.
Leonardo, giovane archeologo, cerca risposte nella terra arida e polverosa illudendosi di risolvere le proprie ossessioni presenti nascondendosi nella grandezza del passato. Scava per riportare in superficie il volto di Agamennone, una faccia che possa sostituire la sua, troppo sbagliata per il pubblico.

Personalmente nutro del sospetto verso le missioni concettuali che vogliono dire l’indicibile, rappresentare l’irrappresentabile, far sentire l’inascoltabile e via paradossando, ammetto quindi una certa prevenzione ma non escludo di essere sorpresa, la vita è viva soprattutto per ciò che non ci aspettiamo.
Qual è la sorpresa? La scena è una tribunetta da stadio con le tipiche gradinate metalliche,

Gabriele è vestito come John Travolta e Bianca Maria è in costume da cheerleader come Olivia Newton John, la maglietta bianca con la B (no, non dice mai Datemi una B). Siamo in Grease. Perché? Sia il musical (1971) sia il film (1978) furono per altro grandi successi, tutt’altro che fallimenti.
I difetti della Città morta non sono colpa di Lidi e anzi lui ci marcia, con quale beneficio ci sfugge ma è evidente che insista lucidamente su ciò che non funziona: la verbosità, la ripetitività, la fatica che i personaggi stessi si sentono addosso ributtandola sugli spettatori.  I tre attori – Christian La Rosa, Mario Pirrello, Giuliana Vigogna – recitano conservando una tensione (tecnicamente) encomiabile e che trasmette una certa inquietudine, tra un intermezzo musicale e l’altro; sì perché lo spettacolo è contrappuntato da canzoni cantate da loro stessi – tra le altre La notte, Insieme a te non ci sto più – a palese mescolamento di cultura alta e bassa, forse che i sentimenti base si possono esprimere sia con le canzonette sia con la poesia?
È una scelta registica e specialmente Christian La Rosa/Leonardo tiene lo stesso tono tiratissimo, sempre sparato verso l’alto, come un motore che “batte in testa”, in velocità tachicardica per tutto lo spettacolo impedendosi qualsiasi sfumatura e producendo un affanno quasi insopportabile per il pubblico, costretto a distrarsi, forse anche non così avvinghiato dai triboli dei personaggi.
Lidi è comunque proiettato verso il passato, quello più recente degli anni ’50-’60, quello di fine Ottocento in cui D’Annunzio scrisse e quello archeologico/classico degli Atridi. È in fondo proiettato verso la morte, del resto qui tutto sa un po’ di cimitero, il campo più che sportivo è santo, e al di là delle dipartite nell’ambito della trama nessuno appare veramente scosso da fremiti, la lingua usata e tutto – nonostante la brillantina – è talmente ammantato della stessa polvere che al Vittoriale ricopre i mille ninnoli del vate che non si può soffrire insieme a questi quattro disperati destinati al dissolvimento. Ma nemmeno si deve.

Il passato è anche l’alveo in cui si muovono le Nina’s drag queens nella loro versione queer de Il gattopardo. Le gattoparde – L’ultima festa prima della fine del mondo si rifà sì al ponderoso romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa ma soprattutto all’omonimo film di Luchino Visconti il cui sfarzo tintinnante tutti ricordiamo. Lo spettacolo è insieme un omaggio al mondo patinato che fu e l’amara constatazione che mai più sarà.
Tomasi di Lampedusa firma un caposaldo indiscusso della letteratura, complesso, stratificato, cinico e che racconta le furbizie, spesso spregevoli, della classe dirigente italiana negli anni del Risorgimento per mantenere potere e posizione, lo scrittore dipinge un sistema descrivendone la superficie, la copertura che dà forma al sottostante; tradurre queste atmosfere e sottigliezze in teatro è un’operazione ambiziosa e francamente non possiamo dire che sia riuscita.

Le Nina’s hanno iniziato alcuni anni fa un percorso teatrale che vuole spogliare la figura della drag queen dai cliché che conosciamo, hanno infatti messo in scena con buoni risultati un’Opera da tre soldi di Brecht (DragPennyOpera) e un re Lear (Queen LeaR) in cui con spirito hanno saputo sottolineare aspetti ironici di testi classici in cui emergevano le loro capacità attoriali e musicali. Nella prima veneziana vista alla Biennale, invece, non pare uscire una lettura particolare dal fatto di inscenare questa storia in vesti da drag queen: lo spettacolo è lungo, sfilacciato e il testo ancora da registrare, risulta farraginoso e nonostante le buone prove degli interpreti – Alessio Calciolari, Gianluca Di Lauro, Sax Nicosia, Lorenzo Piccolo, Ulisse Romanò – Le gattoparde soffre di una drammaturgia poco limpida e in cui gli inserimenti canori appaiono fuori luogo anziché fungere da alleggerimento. Due ore che passano con evidenti problemi di ritmo e si concludono in maniera forzata e poco gioiosa con l’esecuzione di Figli delle stelle di Alan Sorrenti.
Il gruppo stavolta non ha saputo amalgamare la consueta vena divertita con una materia forse troppo articolata per poter essere maneggiata con brio.
L’intento di realizzare uno spettacolo libero, come gli autori dichiarano, fallisce nella pretestuosità di intrecciare la lingua letteraria alla cialtroneria pop. I personaggi hanno fin dall’inizio un che di malinconico, più che attraversare le epoche le regine crepuscolari sembrano trascinarsi senza convinzione verso un tempo indefinito ma certo non migliore.
E forse i costumi di Daniela Cernigliaro, colorati ma non frizzanti, questo vogliono dirci: lustrini, gonnellone e ciglia finte su corpi maschili non ravvivano una festa dal sapore decadente.


LA CITTÀ MORTA

da Gabriele D’Annunzio

adattamento e regia Leonardo Lidi
con Christian La Rosa, Mario Pirrello, Giuliana Vigogna
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
sound design Dario Felli
arrangiamenti Dario Felli, Paolo Casali
assistente alla regia Sanida Mujakovic
elettricista e fonico Lorenzo Maugeri
direzione di scena Guido Pastorino
produzione Teatro Stabile dell’Umbria, La Corte Ospitale

Teatro Goldoni, Venezia
22 settembre 2020 | BiennaleTeatro

LE GATTOPARDE | L’ultima festa prima della fine del mondo

Nina’s drag queen
 | con Alessio Calciolari, Gianluca Di Lauro, Sax Nicosia, Lorenzo Piccolo, Ulisse Romanò
drammaturgia collettiva guidata da Lorenzo Piccolo
regia Ulisse Romanò
costumi Daniela Cernigliaro
scene Maria Spazzi
musiche originali e suono Gianluca Misiti
luci Luna Mariotti
assistente alla regia Livia Bonetti
assistente ai costumi Rosa Mariotti
produzione Aparte Soc. Coop., Teatro Carcano, Teatro Metastasio di Prato, Emilia Romagna Teatro Fondazione

Teatro Goldoni, Venezia
20 settembre 2020 | BiennaleTeatro