ELENA ZETA GRIMALDI| In questi «giorni autunnali di Primavera dei Teatri» (come li ha definiti Ilena Ambrosio nei suoi racconti dei primi giorni di festival), inevitabilmente segnati dalla distanza fisica che – forse altrettanto inevitabilmente? – cela sempre il pericolo di una distanza sociale, sembra che sia pensiero costante e necessità urgente, in platea quanto sul palco, la ricerca del Dialogo, dell’Incontro: tra passato e presente, tra presente e futuro, tra culture, generazioni e tecnologie.
Ed è dal confronto col passato, che parte il mio viaggio posticipato a Castrovillari.

Qualcuno ha detto che «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire», e non era un qualcuno qualunque: questa è una delle più conosciute citazioni di Italo Calvino, che con poche parole esprime un concetto apparentemente complicato, ma che tutti abbiamo toccato con mano almeno una volta, e che ovviamente vale al di là del formato libro. I classici, che siano greci, elisabettiani o moderni, non smettono mai di dialogare col presente, di prestarsi a riletture, manipolazioni e arricchimenti alla luce di nuovi contesti.

È quello che fa la compagnia Eco di Fondo, impegnata sin dalla nascita, poco più di dieci anni fa, nel «rielaborare celebri miti e fiabe come metafore di temi d’attualità», prendendo in prestito il nome dalla famosa tragedia di Sofocle per creare La notte di Antigone, andato in scena nel cortile del Castello Aragonese. In maniera un po’ insolita, il titolo, citando la famosa eroina tragica, non funge tanto da guida o premessa per leggere la storia, ma anticipa la richiesta finale: che ci siano tante Antigone che si succedono nella Storia, aprendo la strada ad altre eroine.

Foto di Angelo Maggio

L’Antigone che vediamo in scena è ispirata a Ilaria Cucchi (anche se, in maniera apprezzabilmente intelligente, nessun nome o riferimento preciso è mai pronunciato sul palco) e la Compagnia immagina la sua notte prima dell’esame, verosimilmente la notte prima della sua testimonianza in merito all’omicidio del fratello da parte delle forze dell’ordine. Una potentissima Antigone che in una notte insonne si fa preda di paure e dubbi e, attraverso ricordi e riflessioni che si materializzano in scena con espedienti scenici tanto semplici quanto efficaci, vive il conflitto tra «la legge privata dell’anima e la legge inamovibile dello stato», istituzione-entità con cui intraprenderà una surreale e distopica lotta nel finale.

Ma soprattutto, tra le luci e le ombre dei ricordi, ha il coraggio di non autoassolversi, di non fare sconti nemmeno a se stessa. È forse questo il meccanismo più interessante dello spettacolo: attraverso i ricordi della protagonista, davanti a noi si materializza la galera sociale che inconsciamente la famiglia costruisce intorno al “figlio problematico”, al “figlio che non rispetta le regole”, al “figlio che ha avuto problemi di droga” − appellativi che, più che etichette, sono incancellabili marchi a fuoco sulla pelle. Tornato dalla comunità di recupero per tossicodipendenti, il ragazzo viene accolto dai genitori con ogni accortezza, con troppe accortezze che cercano di normalizzare la situazione, di celare il sospetto costante; ma che finiscono per esplodere in dinamiche familiari (in alcuni momenti un po’ esasperate nella loro tragicità) che in fondo replicano quelle dello stato nel controllo e trattamento di “chi non rispetta le regole”: sorvegliare, insinuare, interrogare, punire. Mai comprendere.

Foto di Angelo Maggio

Ripercorrendo il suo passato vicino e lontano, improvvisamente diviene palese quanta violenza si celasse dietro le regole della normalità, ancor prima che il fratello venisse arrestato e ucciso. Nell’anima di quel corpo ormai freddo e livido dalle percosse, di quel fratello sempre contrapposto a lei (la figlia brava, puntuale, che si è fatta una famiglia e una vita) c’erano due persone, anch’esse in lotta tra loro: il fratello che voleva essere anche lui bravo per essere socialmente accettato, e quello che invece in questa società ci soffocava e non poteva fare a meno di provare a evadere dalla galera invisibile in cui è sempre stato rinchiuso.

Con un veloce colpo di mano la scacchiera si capovolge, le caselle saltano, e ci ritroviamo tutti dalla parte del colpevole: colpevoli di quella morte, colpevoli di averla causata e di non averla impedita, colpevoli di averla accettata e di volerla vedere, colpevoli di rassegnarci al fatto che le leggi della nostra anima possono vivere solo negli spazi che lo Stato lascia tra le sbarre della sua legge. Ma Antigone no, Antigone non ci sta, non più: la lunga notte ha portato consiglio, e ora che la lotta è finita può cominciare la sua vera battaglia.

Foto di Angelo Maggio

Sempre tra le maglie di un classico, seppure di diversa epoca, s’insinua Paolo Mazzarelli nel suo Soffiavento. Una navigazione solitaria con rotta su Macbeth. Seduti sulle poltrone del Teatro Sybaris, una rilassata tensione dal sapore pulp ci inghiotte nella bolla del palcoscenico, agghindato come un ufficio o forse un salotto, in un’atmosfera intima spezzata in due da un fucile che troneggia proprio al centro del nostro campo visivo. Il personaggio shakespeariano è comodamente seduto sulla sua di poltrona, e dialoga con un interlocutore assente, parla del Regno di Scozia, della morte della moglie, stralci di battute della celebre tragedia risuonano con toni da seduta psicologica. Ma il colloquio viene interrotto da una telefonata: l’esercito nemico sta avanzando, la battaglia finale è inevitabile, e si va verso la conclusione della tragedia. Macbeth ordina che gli vengano portate armi e armatura, ma qualcosa va storto, non riesce a imbracciare il fucile, la scena si blocca e noi ci ritroviamo faccia a faccia con Pippo Soffiavento, l’interprete dello spettacolo.

In un sottilissimo e godibile monologo tragicomico, tra glorie passate e blocchi creativi, aneddoti su immaginari quotatissimi critici a cui i camerieri urinano nel tè per le mance mancate, Pippo si (auto)ritrae come l’attore all’apice di una carriera (e di un mestiere) di cui non vede più il senso, a cui non sa più quale direzione dare, ostacolato da tutti senza nessun apparente motivo. Ne viene fuori un interessante gioco di sovrapposizioni tra l’attore, il personaggio-interprete e il personaggio della tragedia, dove a poco a poco tutte le maschere si fondono, mettendo in evidenza i punti di contatto tra realtà, verosimiglianza e finzione, tratteggiando forse anche quell’indescrivibile necessità che spinge a fare teatro, a incarnare le vite degli altri, a mettere la propria vita in quella di un altro o a farsi contagiare dalla vita di un altro, seppur immaginario.
Un gioco che si palesa nel momento in cui Pippo, sempre sicuro di sé e delle sue parole fino alla fine, ci racconta di sentire delle voci, da anni, voci che gli dicono delle cose, e di non stare invece a sentire gli amici che gli dicono che quelle voci non esistono, continuando imperterrito a credere nelle loro profezie.

Foto di Angelo Maggio

In maniera ormai intuibile, lo spettacolo si chiude a cerchio, tornando dove è cominciato, arricchito di nuovi livelli lettura: l’atmosfera viene di nuovo bruscamente interrotta quando Pippo si ricorda della seduta dallo psicologo. Infila il cappotto, esce, e ritorna a sedersi sulla poltrona e a dialogare col suo interlocutore assente fino allo squillo del telefono, e dall’altro capo del filo si annuncia l’imminenza della definitiva disfatta.
Non è la tanto la trama che sorprende in questo spettacolo, ma l’affascinante capacità di Mazzarelli di trasportarci nel suo doppio (triplo?) racconto, di farci credere di essere veramente Pippo e di portarci, senza farcene rendere conto, a passeggiare sul confine tra la vita e la rappresentazione. «Soffia vento! Vieni naufragio!», Pippo imbraccia finalmente il fucile… «e poi non se ne sa più nulla».

Continua…


LA NOTTE DI ANTIGONE

regia Giacomo Ferraù
drammaturgia Giacomo Ferrù, Giulia Viana
con Edoardo Barbone, Enzo Curcurù, Giacomo Ferraù, Ilaria Longo, Giulia Viana
regista collaboratore Libero Stelluti
consulenza drammaturgica Carlo Guasconi
movimenti scenici Riccardo Olivier – Fattoria Vittadini
assistenti alla regia Giacomo Nappini, Alessandro Savarese, Daniele Vagnozzi
paesaggi sonori Gianluca Agostini
disegno luci Giuliano Almerighi
organizzazione e distribuzione Elisa Binda
produzione Eco di Fondo
con il sostegno di MiBAC e di Next – Laboratorio delle idee per la produzione e la distribuzione dello spettacolo dal vivo lombardo

SOFFIAVENTO
Una navigazione solitaria con rotta su Macbeth

di e con Paolo Mazzarelli
scene Paola Castrignanò
sound design e musiche originali Luca Canciello
disegno luci Luigi Biondi
prodotto da Theatron Produzioni
con il supporto del Centro Teatrale Umbro e Angelo Mai

Primavera dei Teatri, Castrovillari
12 ottobre 2020