LEONARDO DELFANTI | Questa storia inizia nel 20018, quando Emre Yıldızlar, oggi co-direttore di Istanbul Fringe Festival, arriva in Turchia dopo una lunga carriera europea. Nei suoi anni da performer, collaborando assieme a varie compagnie, ha avuto modo di frequentare diversi Fringe Festival, tanto che per mesi non smette di domandarsi: Perché non c’è un Fringe a Istanbul e perché non lo facciamo noi?
Il “noi” di questa storia sono amici e colleghi attori dell’Università di Galatasaray, con i quali coltiva un affettuoso legame di formazione e il desiderio di creare una piattaforma d’arte internazionale a Istanbul.
Noi di PAC – dopo aver raccontato l’edizione online in questo articolo – lo abbiamo intervistato per comprendere cosa voglia dire pensare e costruire un progetto come il Fringe in una metropoli alle porte dell’Europa.

Dare vita a un Fringe festival non sembra affatto facile: cosa vi ha spinto a sviluppare una piattaforma come questa e cosa offre il Fringe alla città di Istanbul?

Il Fringe di Istanbul nasce da un bisogno comune a tutti noi: in una metropoli come Istanbul, caratterizzata da una scena creativa vibrante e fortemente dinamica, l’unica realtà capace di portare in scena performance internazionali prima di noi era l’Istanbul Theatre Festival. Questo festival è accessibile solo alle compagnie internazionali, per cui gli artisti e il pubblico di Istanbul non avevano la possibilità di entrare in contatto con lavori provenienti da tutto il mondo.
Con la Fondazione dell’Istanbul Fringe Festival abbiamo voluto colmare questa mancanza offrendo una selezione di lavori sperimentali senza limiti nazionali e a prezzi accessibili. Il nostro desiderio è quello di trasformare il Fringe in un aggregatore tra la scena performativa locale e globale.

Un Fringe durante il covid… Quali sono le sfide che voi e gli artisti avete dovuto affrontare? Avete scelto di non cancellare l’evento, mentre altri, come Edimburgo, si sono visti costretti ad annullare. Potete spiegarci cosa vi ha spinto verso questa scelta? 

Quando il covid ha colpito, le selezioni per l’edizione del 2020 erano già state fatte.
In giugno abbiamo dovuto riconoscere che organizzare un festival a settembre, con la mobilità e ospitalità che ne conseguono, non sarebbe stato oggettivamente possibile. Come artisti e operatori dello spettacolo abbiamo pensato a lungo se fosse il caso di riprogrammarlo, cancellarlo o spostarlo online. Infine, tutti assieme, abbiamo deciso che quando riguarderemo a quest’anno enigmatico non vogliamo rispondere “Niente” alla domanda “Cosa ha fatto il Fringe di Istanbul durante la pandemia?”.
Sentivamo chiara la volontà di fare qualcosa, trovare soluzioni creative anche se tutti noi siamo concordi nel riconoscere che l’esperienza del teatro non può essere completamente convertita su di uno schermo. Eppure, questo è lo spirito del Fringe Festival: audace sperimentazione e ricerca della novità, dell’alternativa in ogni situazione.
Abbiamo compreso che due erano le ragioni principali a muoverci: trovare una soluzione all’impossibilità di inclusione, dettata dalla pandemia, e contribuire, attraverso l’arte, alla necessaria domanda di aiuto del nostro settore.

Sono stati gli artisti coloro che ci hanno chiesto maggiormente di continuare. E così abbiamo fatto, spostando il festival online. Abbiamo fatto una seconda selezione, aperta solo a quanti avevamo già selezionato, e con questa abbiamo composto uno showcase. Agli artisti di Istanbul abbiamo offerto la possibilità di adattare gli spettacoli per il web così da creare una testimonianza del periodo della pandemia. Volevamo continuare la missione che ci eravamo dati: dare visibilità internazionale agli artisti e creare nuove strade di solidarietà economica, due elementi vitali durante la pandemia.

Sicuramente il vostro format è innovativo. Non solo performance ma anche una chiara volontà di offrire una prospettiva attraverso e oltre la pandemia. Qual è stata la risposta del pubblico e in che modo questa scelta influenzerà il Fringe nel futuro? 

Grazie, abbiamo pensato molto al format. Per noi ciò rende un festival tale e l’esperienza comunitaria che tutti i partecipanti del festival condividono. Non può essere data per scontata, va costruita di volta in volta. Per cui abbiamo pensato che lo streaming online degli spettacoli non fosse sufficiente: abbiamo organizzato incontri con gli artisti, workshops, speed date con i performers al fine di creare una piattaforma ricca di scambi trai partecipanti.
Inoltre, abbiamo creato il Fringe Support Tickets e il Patron Account per sostenere ed aiutare economicamente gli artisti. I biglietti sono stati comprati sia per l’edizione 2020, allo scopo di dare un sostegno ai performers, sia come prenotazioni per l’edizione del 2021, che speriamo di poter ospitare a Istanbul come da tradizione. Fortunatamente avevamo anche degli sponsor.
In totale abbiamo stabilito di donare metà dell’indotto agli artisti.
Per quanto riguarda l’online nutriamo alcuni dubbi sulla ricezione del format, soprattutto perché siamo stati i primi a presentare questo tipo di alternativa in Turchia. Tuttavia, il pubblico c’è stato e ha apprezzato. A conti fatti questo format arricchisce l’esperienza creativa e, per la prossima edizione, stiamo pensando di organizzare un festival ibrido che per permettere agli artisti di essere ancora più accessibili.

Durante i dibattiti è stato reso molto chiaro che non solo per gli operatori ma anche per i performer mediorientali in questo momento è più difficile che mai.  Quali sfide il mondo dell’arte dovrà affrontare in Europa e nel Medio Oriente nel prossimo futuro?

Prima di tutto noi sosteniamo che in un mondo globalizzato bisogni superare la dicotomia tra Est e Ovest, così come quella tra Nord e Sud. Questa urgenza di trasversalità è stata dimostrata anche dalla pandemia, a suo modo. Sinceramente, essere Medio Orientali non crediamo ci caratterizzi ne definisca come organizzazione. In quanto membri dell’European Festival Associacion e del World Fringe Network abbiamo preso parte a molte discussioni riguardati questi argomenti.
Sia in Europa che in diverse parti del mondo, la continuità della pratica artistica e la sostenibilità economica sono al centro del dibattito. Nuovi modelli economici, pressioni per svolgere un ruolo attivo nei negoziati con le autorità locali e nazionali, nuovi modelli internazionali, diversi dai fondi dell’UE, sono una necessità, un dato di fatto. Inoltre, creare legami internazionali è sempre più importante per gli artisti e i professionisti della cultura i quali apprendono gli uni dagli altri.

Infine, cosa vuol dire essere un artista in Turchia? Come occidentali per noi non è affatto chiaro. Per esempio, per i nostri artisti questo periodo è molto duro, specialmente nel sud dell’Europa dove i fondi nazionali scarseggiano. Può essere peggio? E se è così, come affrontate questo periodo come artisti e esseri umani? 

Possiamo dire, dall’esperienza che triamo dal nostro network internazionale, che tutti gli artisti del mondo stanno affrontando un duro momento. Tuttavia, ci sono delle differenze, legate soprattutto al contesto politico-economico. Per esempio, quando in Germania gli artisti ricevono automaticamente un sussidio per affrontare la pandemia, in Turchia questo non accade.
Sebbene il Ministero della Cultura abbia rilasciato dei fondi essi sono insufficienti per aiutare tutta la scena artistica nazionale. Esistono iniziative private, create apposta per far fronte al periodo, ma la lacuna in termini di aiuti, persiste.
La Turchia ha una scena culturale, specialmente quella teatrale, molto variegata e indipendente. La mancanza di un riconoscimento legale era già un problema prima della pandemia: i teatri indipendenti, sotto forma di cooperative, non sono riconosciuti come tali ma come bar e ristoranti. La precarietà professionale degli artisti e della cultura in generale non è altro che aumentata in questo periodo. Molti teatri rischiano di chiudere sommersi dai debiti, eppure nuove iniziative e networks si stanno mettendo in moto per fare fronte alla situazione.
Essere un artista in Turchia vuol dire lavorare in condizioni davvero difficili, con pochi soldi, senza mai ottenere una stabilità economica che permetta di elevarsi da una vita precaria. Dall’latra parte, vuol dire sviluppare un’incredibili capacità di resilienza, che si concretizza in capacità di cambiare e di rispondere per tempo alle crisi. In altre parole, il mondo dell’arte in Turchia già boccheggiava prima dell’avvento del Covid-19.
Forse, il mondo occidentale può apprendere da altre culture come gestire una crisi per trovare nuove vie di sopravvivenza e creazione.