ANTONIO CRETELLA | Una giovane maestra viene licenziata a causa della diffusione di fotografie sessualmente esplicite diffuse dal suo ex, foto inviategli in privato durante il periodo della loro relazione. Il materiale, diffuso commettendo un reato su una chat del calcetto del ragazzo, arriva per vie traverse in una chat delle madri degli alunni della giovane maestra, le quali condividono ulteriormente le fotografie, commettendo anch’esse un reato. Ho voluto sottolineare con insistenza la natura dolosa delle condivisioni – avvenute, la prima, per vantarsi sguaiatamente della conquista, la seconda sotto lo scudo di un ipocrita impeto moralista – per evidenziare il ruolo di vittima della maestra, violata nella sua legittima intimità con quello che era il suo fidanzato e dalla pruderie perbenista delle madri dei suoi alunni, un ruolo che si cerca di disconoscere dipingendola come colpevole di un peccato di lussuria. È quella disgustosa inversione a cui ci hanno abituato anni di allucinante dibattito sull’opportunità di definire ‘stupro’ la violenza perpetrata su una ragazza coi jeans oppure no, che sottende, più in generale, la riduzione della sessualità femminile a territorio unico di scandalo. Ci si può macchiare bene o male di ogni sorta di sozzume sociale, dalla corruzione all’evasione fiscale, si può orgogliosamente rivendicare la gioia per la morte di persone in alto mare, ma il sopracciglio si alza solo davanti alla scoperta che anche una maestra ha una sessualità e la vive lecitamente come meglio crede. Allora si allestisce il cupo processo sommario alla Dogville, si cuciono le lettere scarlatte in una piazza pubblica contraddittoriamente sessuofoba è ipersessualizzata, salvo poi piangere con lacrime di coccodrillo le vittime del revenge porn come Tiziana Cantone, violate e irrise da logiche da branco che l’hanno portata al suicidio.