GIORGIO FRANCHI | Siamo ormai in quel periodo in cui i dizionari di tutto il mondo proclamano la parola dell’anno. Il prestigioso Collins vota lockdown, mentre il Merriam-Webster propende per pandemia. Eccezionalmente non si pronuncia l’Oxford, per cui non basta una parola per racchiudere il 2020. Nel proporre un esauriente assortimento di lemmi italiani per l’inizio della decade, Arnaldo Greco si conferma la pecora nera del web: il suo è forse l’unico articolo che non cita parole legate alla pandemia.

L’effetto del coronavirus, per usare un neologismo ormai di dieci e passa anni fa, è quello del photobombing ovvero, dello scherzo che consiste nell’invadere l’inquadratura di qualcuno che si sta scattando una foto. Il covid entra di prepotenza nel nostro immaginario nei momenti meno opportuni. A molti ormai capita di vedere un film girato prima del 2020 e percepire un brivido: ma possono stare così vicini? E senza le mascherine? Poi ci si sveglia, in attesa di rifarsi la stessa domanda dieci minuti dopo.

Un riuscitissimo atto di photobombing.

L’effetto photobombing è solo in parte spontaneo. Esso è agevolato dalla sovraesposizione a un tema ricorrente: un bombardamento mediatico come quello che abbiamo visto di recente contribuisce moltissimo. Se torniamo indietro di dodici mesi, quando giallorosse non erano né le zone, né le correnti al governo, lo stesso fenomeno avveniva con l’immigrazione. Il caso Aquarius è stato tanto cavalcato dalla destra italiana da dare l’impressione che la nave si fosse moltiplicata in una flotta, impegnata in un assedio che non risparmiava nessun porto dello stivale. La vittoria di Mahmood a Sanremo è stata venduta come prodotto dell’asse Obama–Soros, con infiltrazioni degli Illuminati e della mafia nigeriana. Obiettivo decisamente modesto, viste le forze in campo.

La confusione è uno dei pochi fenomeni in cui l’effetto collaterale coincide con quello desiderato: ovvero, più confusione. Saturando un tema oltre la massima soglia dell’inflazione si ottiene una matassa di dati incompleti in cui trovare il bandolo è impossibile. Nel caos dell’epoca d’oro delle fake news, una pandemia solo virtuale, l’Oxford Dictionary non si è fatto scrupoli a eleggere post truth (post-verità) parola dell’anno del 2016. La post-verità identifica un periodo storico in cui la veridicità di una notizia è un elemento secondario nell’effetto che genera nell’opinione pubblica. Il suo sostrato è un humus di concetti e ideologie scarnificate che, decomponendosi, si mischiano in una poltiglia indefinita.

QAnon, uno dei più grandi movimenti cospirazionisti in circolazione

Le zone rosse, arancioni e gialle non esistono: le comunicazioni istituzionali fanno riferimento ad aree (rosse, arancioni, gialle). Eppure, ormai si legge sempre più spesso zone. Come extracomunitario si applica, nel quotidiano, con intento dispregiativo agli immigrati romeni e bulgari, nonostante Bucarest e Sofia siano nell’UE. Nell’humus sanitario il governo ci ha messi tutti in quarantena, quando invece siamo stati in lockdown, che prevede libertà molto maggiori. Nell’humus migratorio sono tutti clandestini, senza distinzione, e rifugiati è solo un sinonimo da sinistra radical-chic. Sono sinonimi anche arabo e musulmano, specie quando si parla di terrorismo, come positivo e sintomatico, o negativo e immune.

Come ulteriore conseguenza, le parole perdono la loro neutralità. Non si può più pronunciare la parola immigrato senza che in mente ci risuonino tutti gli scontri ideologici dell’ultimo decennio. Eppure, da dizionario, immigrato indica semplicemente chi si è spostato da un Paese a un altro. Non è che la contrapposizione di nativo, anch’essa parola fortemente condizionata dal dibattito sul colonialismo. Di per sé dire che X è immigrato non sottintenderebbe automaticamente qualcos’altro; come pure dovrebbe essere considerato naturale che possa ignorare le regole e i costumi del posto dove è giunto da poco.

Ma se questo discorso ricorda quelli di certi politici di destra, aggiungiamo un’altra accezione a immigrato. Si parla sempre più di nativi digitali e immigrati digitali, a seconda che si sia nati in un’epoca in cui i primi computer erano già in circolazione o meno. In questo senso, buona parte della nostra classe politica ricade nella seconda categoria. Lo testimoniano le loro numerose sparate sui social, forse con l’illusione che spariscano il giorno dopo o che restino sullo schermo del pc, non permeando nella vita reale. L’ultima, quella di Giulio Gallera che si ritrae in compagnia, senza mascherina, fuori dal suo comune. Denotando la completa incomprensione delle norme che regolano il web. Un’occasione, per i leghisti, di capire com’è essere un immigrato.