LAURA BEVIONE | Soltanto una piccolissima fetta della rigogliosa scena teatrale inglese e, in particolare, della sua variegata e ognora fertile produzione drammaturgica, giunge in Italia, tanto da obbligare gli appassionati – fra cui la vostra cronista teatrale – a frequenti voli a Londra per rinvigorenti immersioni nel West End, ma anche al National o al Royal Court…

La pandemia ha bruscamente interrotto quegli amati tour e, allora, non può che portare una gradita consolazione la notizia della nascita, a Milano, di un progetto inteso a «valorizzare lo storico scambio culturale tra la cultura italiana e il teatro inglese»: si tratta della J. Productions, creata dall’avvocato Julia Holden, inglese ma da anni residente in Italia, la quale ha messo a punto un variegato cartellone comprendente spettacoli, attività didattiche e laboratori, realizzati in collaborazione con autori, registi e attori britannici.

Cartellone che diventerà realtà non appena le sale teatrali saranno riaperte: intanto, per far conoscere J. Productions e testarne caratteri e modalità, Holden ha allestito un programma di iniziative online: una serie di sei diversi reading, cui è stato dato il titolo Changing Times, e, in occasione dei settecento anni dalla morte, un omaggio a Dante e alla sua opera, letta e commentata, però, da una prospettiva anglosassone – Speaking Dante.

Ecco, dunque, che mercoledì scorso la vostra cronista ha assistito – sull’ormai imprescindibile Zoom – a un’insolita lettura online, il cui oggetto è stato A Childood in Berlin 1927-1938, dramma scritto da Justin Butcher, pluripremiato drammaturgo, regista, attore e musicista britannico, che ha accettato di collaborare fattivamente al progetto di Julia Holden. Autore/regista e attori – sette, compresi la figlia adolescente di Butcher e un bambino super-professionale – collegati ciascuno dalla propria casa, così come il tecnico audio, impegnato a diffondere al momento giusto musica ed effetti sonori: non una semplice lettura ma uno stimolo per il pensiero e l’immaginazione del pubblico a cui, grazie alle indicazioni scenografiche e registiche dello stesso Butcher, è stato implicitamente chiesto di costruirsi autonomamente la messinscena del play.

Un dramma di argomento storico-familiare, ispirato alle vicende della famiglia d’origine della stessa Julia Holden e costruito su un ampio flashback che consente al protagonista, Max Newman, di ricostruire la propria infanzia berlinese, negli anni che videro l’ascesa di Hitler e la promulgazione delle leggi razziali – il padre era di origine ebraica, la madre tedesca.
Nato nel 1927, Max trascorre un’infanzia serena a Tempelhof, elegante sobborgo berlinese, dedicandosi ai giochi e, in particolare, alle costruzioni Meccano. La sorella Eva suona il pianoforte e frequenta ragazzi “ariani” e la sua famiglia è invitata dai vicini a festeggiare insieme il Natale, che cade poco dopo Chanukah…
I Newmann – o, meglio, i Neimanns, il loro cognome originale, modificato dopo la fuga in Gran Bretagna – sono perfettamente inseriti nella comunità berlinese, si sentono tedeschi e non ritengono che la fede ebraica possa in alcun modo minare la propria ordinaria quotidianità, finché l’antisemitismo irrompe nella loro tranquilla esistenza: la figlia quattordicenne accusata di “traviare” Günther, il suo “fidanzatino”, e, soprattutto, l’arresto del padre, deportato a Buchenwald…  La famiglia riesce, dopo mesi di incertezza e dolore, ad abbandonare la Germania e a raggiungere uno zio a Londra ma è chiaro che la vita dei suoi membri non sarà più la stessa.

Una vicenda esemplare, che, se da una parte evidenzia l’irragionevole arbitrarietà di qualsivoglia discriminazione razziale, dall’altra testimonia dell’invincibile persistenza dei traumi infantili, irrimediabilmente efficienti nel plasmare per sempre indole e umori di chi ne è vittima. Così il Max oramai anziano, in visita alla nipote che si è stabilita in Italia con il marito Marcello e i figli, appare ancora imprigionato in quel passato che, appena undicenne, lo costrinse a una forzata maturità.

Il play di Butcher racconta tutto ciò con efficace limpidezza, alternando allegria e cupezza, spensieratezza e repentina angoscia, e testimoniando in questo modo l’insensato sopraggiungere della tragedia della persecuzione razziale. Un testo vario e dinamico di cui la lettura partecipata e coinvolta dei sette attori, impegnati in più ruoli, fa intuire una resa sul palcoscenico particolarmente coinvolgente. Ma non solo, questo esperimento di reading online ha sicuramente alcuni meriti immediati: il piacere di ascoltare l’eloquio chiaro ed elegantemente preciso, mai retorico e nondimeno empatico, proprio degli attori anglosassoni; l’eccitazione nel partecipare alla creazione, quasi davanti ai propri occhi, di uno spettacolo; la gioia di trovare una drammaturgia certo non innovativa e tuttavia serrata e artigianalmente dettagliata e curata, frutto di una pratica teatrale non soltanto cerebrale bensì concretamente e costantemente praticata… Insomma, uno stimolo anche per i teatranti nostrani, non tanto per inani imitazioni di una tradizione teatrale per certi aspetti incompatibile con indole e humor italiani, quanto per riflettere sulla necessità di ritornare a una pratica di scrittura drammaturgica da sviluppare, ove possibile, più sui palcoscenici che nel calore delle proprie camerette…

 

A CHILDHOOD IN BERLIN 1927 – 1938
by Justin Butcher

3 marzo 2021, online

Per i prossimi appuntamenti: www.jproductions.it