Racconti di una Storia comune
di Martina D’Antonio

La Storia e le storie di ognuno di noi si fondono costantemente, ma poche volte l’analogia è rilevata dall’occhio di chi è impegnato unicamente a esistere come individuo. Compito del teatro, in alcuni casi, è fornire strumenti di comprensione a coloro che non sembrano notare la simmetria tra soggetto e contesto. Opere come Katie’s Tales diventano quindi fari che riaccendono la luce sulla consapevolezza che esistano storie mai (o poco) raccontate, ma non per questo meno degne di nota. La Storia è scritta dai vincitori, ma in Katie’s Tales Agnieszka Kazimierska – ideatrice e unica interprete dell’opera – si fa portatrice del carico emotivo di coloro cui non è stato concesso spesso di raccontare la propria storia.

L’opera è frutto di anni di incontri che hanno segnato la vita e la carriera di Kazimierska: sollecitazioni artistiche scaturite non solo da confronti con colleghi – come avvenuto nell’ambito dell’Open program coordinato da Mario Biagini per il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards – ma anche dalla lettura di testi tradizionali e moderni che le hanno ispirato un teatro fatto di commistioni stilistiche e contenutistiche.

Katie è, per antonomasia, la donna della tradizione popolare polacca: Kasia – questo in origine il nome – è il fulcro di canti e storie susseguitisi nel corso di secoli. Sul palco – forse scarno da un punto di vista puramente visivo, ma pieno di immaginazione per chi riesce a guardare oltre – Kazimierska incarna un flusso di attese: un’amante che aspetta il ritorno di un uomo, una donna in cerca di un senso che giustifichi il passato e assicuri un futuro. Nell’attesa, le domande che le invadono la mente e le inondano la voce di sentimenti confusi sono le universali questioni del “Cos’è questo? Chi sei tu? Cosa ci facciamo qui?”, parole che introducono l’opera e ne sanciscono anche la chiusura. Parole pronunciate in polacco – lingua madre dell’autrice – che diviene custode dell’intimità e della familiarità di cui si ha bisogno per poter scandagliare il proprio animo e arrivare a domandarsi questioni tanto scomode e delicate. Il viaggio compiuto dal testo non fornisce risposte, forse perché la loro natura così personale impedisce una soluzione che abbracci la coscienza dell’intero genere umano, nonostante tutto il testo e la sua messa in scena spingano verso una collettivizzazione dei sentimenti, lontana da un’individualità estraniante. Tale volontà di comunione è ricercata anche nella lingua scelta per la messa in scena: un inglese che diventa lingua franca, parlata per dar voce alla molteplicità di personaggi che si susseguono tutti nella forma di Agnieszka Kazimierska. Grazie a sottili variazioni nel vestiario, a correzioni nella modulazione della voce, a movenze diversificate, in lei riescono a co-abitare personaggi apparentemente diversi tra loro: essi portano con sé le proprie storie, che a loro volta non possono essere sradicate dalla Storia. Katie stessa prova a spiegare la moltitudine di personalità che la attraversano: “Tutto è immaginazione. È come se, lungo una strada dritta, all’improvviso apparisse tutto un labirinto, con i suoi percorsi e le sue possibilità. Seguo una strada, voglio scegliere il sentiero giusto. E vado. La seguo e penso Sì, ho trovato la via. […] E di solito vago in qua e in là, dimenticando dove stavo andando.”

Come scegliere, allora, quali storie raccontare? La corrente della Storia la spinge verso sentieri di dolore, il sentimento che più accomuna l’umanità.
Con – o dentro – Katie vivono due servitori mediorientali, che in lei trovano rifugio sfuggendo a una persecuzione. Le fa visita un vicino, poi uno zio che la muove dall’interno come fosse una marionetta: un movimento scattoso dopo l’altro, il corpo è contorto in una posa che richiama da vicino gli orrori della Storia, ancora troppo recente per poter smettere di aggredire ferite ancora aperte, continuando imperterrita a infliggere dolore all’umanità e ai singoli individui.
Come recita Katie: «Genere umano, che cosa ti abbiamo fatto, che soffri così tanto?».