RENZO FRANCABANDERA | Opera Prima è un festival che da anni si svolge a Rovigo con la direzione tenace e amorevole del Teatro del Lemming, un sodalizio artistico messo in piedi decenni fa da Massimo Munaro e che continua a dedicarsi a produzioni al confine fra il teatro e l’arte performativa, ibridando i linguaggi e mettendo al centro dell’esperienza il rapporto fruitivo diretto dello spettatore, di rado seduto in platea.
Ma come eccezione che conferma la regola, non è quello che è accaduto questa volta, per l’apertura del festival affidata ad Ante Lucem (Prima dell’Alba), allestimento della compagnia di Rovigo ispirato a un’opera da camera di Dmitrij Šostakovič, creata dal grande compositore russo attorno alle suggestioni per l’opera del poeta russo suo contemporaneo Blok.

Sette romanze su poesie di Aleksandr Blok op. 127  (con un incipit tratto da un altro capolavoro del compositore russo, il Trio n. 2 op. 67) non è la colonna sonora dello spettacolo. È lo spettacolo. Il compositore scrisse queste romanze alla fine degli anni Sessanta da un letto d’ospedale, in una sorta di forzata quarantena, traendo sollievo e ispirazione da alcune poesie giovanili di Aleksandr Blok.
Per quanto si tratti di una partitura scritta per soprano e un piccolo ensemble strumentale, infatti, la creazione si presta particolarmente a una rilettura teatrale, questione che si estende in generale alle ultime opere di Šostakovič. Il rapporto fra il musicista e il teatro, peraltro, fu sempre vivissimo. Nei primi vent’anni della sua carriera, scrisse una dozzina di colonne sonore per il teatro. In lunghezza e varietà rappresentano una parte sostanziale della sua produzione, eppure sono sorprendentemente poco conosciute.

Ci sono spiegazioni pratiche e storiche per questa negligenza, ma anche buone ragioni per cui vale la pena esaminarle. In primo luogo, l’esperienza teatrale diretta è stata per molti versi la chiave del suo carattere artistico e della sua tecnica in rapida evoluzione. In contrasto con la sua musica degli anni successivi, la sua produzione fino alla prima metà degli anni ’30 fu dominata in modo schiacciante da drammi di diverso genere, tra cui due opere integrali, una terza opera incompiuta, tre balletti integrali, una partitura per l’accompagnamento dal vivo di un film muto, tre o quattro delle sue migliori colonne sonore per film musicali, una commedia musicale incompiuta, uno spettacolo completo per il music hall e le sue prime sei serie di musica di scena. Come ha osservato il direttore d’orchestra Gennady Rozhdestvensky, per Šostakovič in quel momento il teatro era un “laboratorio” in cui poteva sperimentare e sviluppare le sue abilità in molti modi. Se queste partiture incidentali non hanno la maestria e la finitura delle opere o la brillantezza e l’ampiezza dei balletti, rivelano ancora oggi molto di ciò che accadeva in quel laboratorio.
Scrivendo velocemente e di solito in condizioni dure, è stato costretto a inventare strane combinazioni vocali e strumentali, a impostare testi a volte assurdi o improbabili e, più in generale, ad affinare la sua rapida capacità di risolvere problemi creativi messi sulla sua strada non dalle richieste della sua immaginazione, ma dalle esigenze quotidiane dei responsabili delle produzioni a cui stava lavorando.
Le opere dell’ultima parte della sua vita hanno una rotondità lirica e drammatica che invita invece la contemporaneità a fare una riflessione creativa.
E così il Lemming fa una scelta di campo interessante, accetta questa sfida e porta in scena l’opera musicale e una sorta di rappresentazione coreografata dello spirito che anima le liriche del Blok, accostando alla partitura musicale quella coreografica, affidata a tre attori associati ciascuno ai tre diversi strumenti, come fossero trasposizioni incarnata della parola del poeta, che pure vive in scena. La voce del soprano, infatti, è abbinata ai versi poetici che furono alla base della creazione e vengono qui recitati da un attore.

Aleksàndr Blok è la figura più cospicua di quella generazione di simbolisti russi che vissero in modo tumultuoso il passo della storia, la crisi della cultura borghese, l’approssimarsi della tempesta: respinse il positivismo, le formule naturalistiche, i vezzi dei decadenti. La sua è una poesia di confine, che guarda alla fine di un’epoca e all’approssimarsi delle catastrofi del cambiamento, preannunciando il cataclisma. La sua parola, eminentemente lirica, unita alla sua esasperante ed esasperata sincerità, lo porta da un iniziale simbolismo mistico a un allucinante realismo, non privo di significati allegorici.

Nella felicità nessuno crede.
Che fare! Vaneggiando dalle risa.
ubriachi, dalla strada contempliamo
il rovinare delle nostre case!

Nell’amicizia e nella vita perfidi
scialacquatori di vuote parole,
che fare! Andiamo spianando il cammino
per i nostri lontani discendenti!

Quando le ossa infelici marciranno
sotto una palizzata fra l’ortica,
qualche storico di epoche future
scriverà un’opera considerevole…

La sua poesia si sviluppa dunque come un romanzo lirico, incentrato sulla figura reale del poeta. Un romanzo folto di contrasti e di antitesi, il cui eroe si trasforma da cavaliere in pagliaccio, da paladino teologico in cliente di bettole, pencolando fra il misticismo e la perdizione. E dove ogni episodio, per quanto banale, dissolve in una fantasia metafisica, in un giuoco d’ombre.

Aleksandr Blok e Lyubov Mendeleeva recitano una scena dell’Amleto nell’Estate del 1898

Su tutti, nell’allestimento del Lemming, fruito dalla platea e con un tulle a separare questa visione irreale dal mondo concreto, incombe la presenza, quasi immateriale e sospesa, di un angelo vestito di rosso in fondo alla scena, forse quel daimon rivoluzionario che però per entrambi divenne anche in qualche modo condanna, perchè della rivoluzione vissero gli entusiasmi ma anche i fallimenti. Blok a questa stanchezza dovuta alla fine del sogno non sopravvisse. Il musicista dovette scendere a patti con la restaurazione dell’apparato bolscevico, che mietette invece tante vittime fra i suoi amici artisti.

Ad alimentare la creazione è il rapporto sempre centrale nelle regie di Munaro con il corpo, la sua fisicità psichica, fuor di paradossi, perchè il binomio corpo-mente è inscindibile, come dimostrato da scienziati come Damasio, seppur questo scardini le fondamenta della filosofia occidentale contemporanea di matrice kantiana, che su quella partizione e divisione netta si basa. Il corpo non esiste senza la mente e viceversa. E così la scrittura scenica sovrappone alla musica il linguaggio articolato del teatro, alla fisicità dei corpi, la parola poetica l’evocazione simbolica delle immagini, ora angelicate, ora carnali. Muse della poesia che ci regalano i loro vibrati come corde di violino. Ne intravediamo i corpi sotto la trasparenza di tuniche leggerissime, che aprono conturbanti scenari misteriosi ed evanescenti che, come nelle poesie di Blok, cercano il confine fra malinconia e senso della vita, enigmi e forze titaniche.


Si tratta di un allestimento raro, sia per la qualità del lavoro musicale che recupera una partitura poco frequentata, che per il lavoro sul corpo e sui corpi, che anche ove lo si considerasse al di qua del confine del coreografico – per rimanere dentro l’interpretazione fisica e performativa – resterebbe pur sempre un segno di senso profondo.
È una di quelle cose che a teatro si vedono poco. Quasi mai. Forse anche perché è una creazione onesta, senza mediazioni. Che non guarda al pubblico prima di fare un segno d’arte per banalizzarlo. Un’operazione che potrebbe e dovrebbe avere uno spazio possibile sia nella programmazione tradizionale di un normale teatro che in quella dei teatri lirici.
Introduce lo spettacolo un interessante quadro storico, affidato allo stesso regista Massimo Munaro, che fa da cornice concettuale necessaria tanto alla creazione che alla vita dei due artisti di cui il Lemming ha scelto di mettere direttamente o indirettamente in scena l’opera.


ANTE LUCEM
scrittura scenica del Teatro del Lemming
su “Sette romanze su poesie di Aleksandr Blok, op.127“ di Dmitrij  Šostakovič

scrittura scenica e regia Massimo Munaro
con Alessio Papa, Katia Raguso, Marina Carluccio, Diana Ferrantini, Silvia Massicci
soprano Cristina Baggio, violino Giacomo Rizzato,
violoncello Edoardo Francescon, pianoforte Andrea Mariani
costumi Thierry Parmentier
una coproduzione  Teatro Sociale di Rovigo / Teatro del Lemming 2021