STEFANIA CARVISIGLIA | Roma, Teatro India. Sulla scena un corpo attende in una posa plastica che tutti gli spettatori prendano posto. Si può scorgere dalla mascherina nera che le contorna la striscia degli occhi, il suo osservare. L’attesa prima dell’impresa.
Dinanzi a lei un cartone grande quasi quanto il palco poggia a terra. Dalle tratteggiature si intercetta che quel cartone è una sagoma di un qualcosa che prenderà forma?

Maison Mère, è la prima tappa del ciclo Favole immorali commissionata da Documenta14 della coreografa, artista, circense Phia Ménard, già un anno fa al Teatro di Roma con Vortex.
Una volta che il pubblico è accomodato, Ménard si alza da terra. Un abito di pelle, calze a rete, ginocchiere e stivali con tacco portano alla luce l’immagine di una guerriera mistress che si appresta ad affrontare una fatica.

Foto Jean-Luc Beaujault

Il tacco comincia a echeggiare, con un delay, mentre il piede svolge i suoi passi perimetrando il confine del cartone. C’è una cadenza in quei passi che provoca una suspence, gonfia l’aria con quel ritardo sonoro che è a metà strada tra il rumore del tacco dell’inquilina di sopra e i corridoi dell’albergo di Shining. L’incertezza si dissolve quando il corpo con decisione e furia vettoriale si getta sul cartone e comincia a distruggere quelle parti fuori dalla linea tratteggiata, gettandole da qualche parte nello spazio.
Così inizia l’impresa edificativa di Ménard, un’impresa faticosa, lenta, lunga, sudata, solitaria. Le uniche alleate sono lance che si trasformano in pilastri, all’occorrenza, o in spade incrociate sulla schiena nei momenti di riposo e analisi del prossimo passaggio. Ogni tappa viene sigillata con un pezzo di scotch carta, che definisce e solidifica. L’ultima tappa, la più complessa e muscolare, in cui qualcuno dal pubblico seriamente si domanda se ci sia bisogno di intervenire, viene elusa con un passaggio inaspettato: la performer entra dentro la costruzione, la muove dall’interno e finalmente la forma è data. Una casa di carta, con Phia Ménard rinchiusa dentro.

Foto Jean-Luc Beaujault

Una sega elettrica, mossa con precisione e fermezza, si muove dall’interno. Il suono che ne emerge intrecciandosi con il suo delay, unico paesaggio sonoro che sostiene tutto lo spettacolo, sposta i sensi in un cantiere. Il lavoro di bottega dell’artigiana guerriera dà alla luce la casa madre, il pantheon. La divinità sembra aver eretto il proprio tempio, da cui con disinvoltura esce a osservare il lavoro fatto. Il corpo è stanco, luccicante di sudore ma emana ancora una forza che neanche l’impresa fatta sembra scalfire.

Phia Ménard in Maison Mère si ispira alla casa di Atena, al Partenone, immaginando una dimora di protezione per l’Europa, ma anche, leggo, alla seconda guerra mondiale e al bombardamento che distrusse Nantes nel 1943, in cui il nonno dell’artista fu una delle vittime, per permettere agli Alleati di impegnare le loro truppe sul suolo europeo.
Una dimora, nel senso etimologico, poggia le fondamenta nel terreno dove rimarrà stabilmente. La ricerca di Ménard (così come ha dimostrato nei lavori precedenti) poggia le sue fondamenta su un’esperienza di limite e di inaspettato, in cui anche il pubblico viene messo alla prova.

Foto Jean-Luc Beaujault

Dal soffitto comincia a gocciolare acqua, prima lentamente poi a scrosciare. Una pioggia torrenziale si abbatte sulla casa-pantheon. Il cartone soccombe alla nuova forza distruttrice. Anche Ménard comincia a piegarsi su un cartone zuppo, a trovare una posa  mentre ricomincia a fissare il pubblico con un’espressione meno imperturbabile. All’acqua e al suo suono presente e, ancora una volta in delay, si aggiunge un fumo bianco che riempie la scena, raggiunge il pubblico e le vie d’uscita. Il suono assordante, il fumo, l’acqua, il fumo, il suono. Non c’è nessuna finzione, si è immersi nella catastrofe. Ciò che copre viene gettato via. Si assiste all’apocalisse nel suo senso letterale, disvelamento o rivelazione. Cede ogni difesa, viene voglia di fuggire o si spera intimamente di salvarsi, di sopravvivere e allo stesso tempo si fa esperienza di essere senza veli, profondamente inermi. Ménard rimane seduta sul cartone, come Kenshiro in un paesaggio postatomico. Gli appalusi ridanno realtà alla finzione o finzione alla realtà, sciolgono un po’ di tensione, riportano al qui e ora. Lo sguardo, tuttavia, è segnato e indietro è difficile tornare.

 

MAISON MÈRE
Contes Immoraux – Partie 1: Maison Mère

drammaturgia e regia Phia Ménard e Jean-Luc Beaujault
scenografia Phia Ménard
con Phia Ménard
musica e sonorizzazione Ivan Roussel
direzione di scena Pierre Blanchet e Rodolphe Thibaud
costumi Fabrice Ilia Leroy
direzione tecnica Olivier Gicquiaud
prodotto da Compagnie Non Nova
con il supporto dI Fondazione Nuovi Mecenati – Fondazione franco-italiana di sostegno alla creazione contemporanea

Teatro India, Roma                                                                                                         30 ottobre 2021