ROSSELLA PICCARRETA | «I primi mesi di vita e gli ultimi si toccano come in un cerchio, sono il varco da cui si entra e quello da cui si esce», racconta in un’intervista Concita De Gregorio, autrice e interprete di Un’ultima cosa – cinque invettive, sette donne e un funerale, andato in scena con la regia di Teresa Ludovico al Kismet di Bari in occasione dell’inaugurazione della stagione 2021/22 dal titolo suggestivo Tutto cambia.

Chissà se è vero che nel momento della morte riaffiorino in un attimo i ricordi d’infanzia e ci sentiamo di nuovo cullare dal canto di nostra nonna. Certo è che lo spettacolo è sospeso tra un’orazione funebre e una ninna nanna.
Il titolo allude già al filo rosso che regge la drammaturgia: cinque donne si raccontano, per l’ultima volta. Trovano nella parola un’occasione di riscatto e una cura che le risarcisca di una vita travagliata. Con passione e coraggio, rendono onore al proprio abisso. E attraverso le loro invettive recuperano la dignità di essere ed esistere per se stesse e non in quanto “compagna di”, “figlia di”, “amante di”.
La parola si propone così di divenire terapeutica per chi racconta ma anche per chi ascolta.

Dora Maar, Carol Rama, Maria Lai, Amelia Rosselli, Lisetta Carmi sono donne speciali, fuori dagli schemi, artiste libere eppure spesso vissute all’ombra di un uomo, figure splendenti come finestre luminose, in cui lo spettatore si affaccia a spiare per conoscerne le storie.

A questo allude il gioco di luci di Vincent Longuemare: in una scenografia minimale e geometrica, costruita su tre livelli, sia in orizzontale (con gradoni simmetrici) sia in verticale nella profondità (sfondo, cortina di mezzo, proscenio), sono disegnati rettangoli luminosi che cambiano colore e disposizione ai cambi delle emozioni e dei personaggi.
Porte e finestre dietro cui si muovono sagome femminili, varchi per altri mondi da cui provengono canti.

La dimensione ultraterrena è evocata, oltre che dai giochi di luci e ombre, dalla voce  cristallina e arcaica di Erica Mou. È lei la settima donna in scena che insieme a C. De Gregorio e alle cinque artiste narrate completa il repertorio del femminile. I suoi canti si alternano alle orazioni. A voce nuda interpreta  con la musica le storie e dice quello che le parole non sanno dire. Il suono del suo vibrato rimanda a un passato ancestrale fatto di nenie, di antenate, di lingua delle origini. Canta in italiano un ricordo d’infanzia della stessa Concita, la ninna nanna della signora Luna, in spagnolo lo strazio della Llorona e quello ugualmente struggente dell’amante di Picasso; canta in dialetto con Neinde, un pezzo tutto suo, il legame forte alle proprie radici. Appare e scompare come un’ombra dietro le finestre o sulla scena, quasi come fantasma in un abito lungo e bianco (di Antonio Marras), casto come quello di una bambina e antico come quello di un’antenata.

La scena si apre con una lama luminosa nel buio, una luce di taglio illumina l’interprete che entra facendo rumore con i tacchi degli stivali. Sono le scarpe che usa abitualmente, i suoi «stivalacci», come li definisce lei. E il dettaglio non è irrilevante, come capiremo dopo. Indossa un abito leggero dal sapore vagamente andaluso, che prelude ai passi recitati in spagnolo, e uno scialle avvolgente, usato diversamente a ogni cambio di storia. Ha in mano un libro aperto. Non è un personaggio, è sé stessa, la scrittrice e la giornalista, che sta per narrare storie di donne eccezionali e attraverso queste le proprie ossessioni, ma è anche un archetipo femminile a metà tra una moderna Sherazade e una madre con la sua fiaba della buonanotte.

Dopo la prima scena viene inghiottita dal buio, poi riappare, questa volta con altre scarpe, sandali leggeri ed eleganti con cui diventa quelle donne. Le narrazioni sono in prima persona. Concita inizia a leggere, poi sposta gli occhi dal libro, e diventa la loro voce. Dice lo strazio di Dora Maar, la donna che piange, musa umiliata e sofferente di Picasso, nascosta sotto le finestre a spiare il suo amante.
Poi passa a un’altra storia: lancia l’invettiva di Carol Rama, audace, erotica, sovversiva e ribelle.

I passaggi netti tra le diverse orazioni sono cuciti dal canto di Erica Mou e dalla regia di Teresa Ludovico  in un unico coro di donne.
Il tono della narrazione si fa più lieve nel discorso di Maria Lai, in cui il bisogno tutto femminile di tessere legami e rammendare gli strappi della vita diventa arte.
È sofferente in Amelia Rosselli, divisa tra poesia e nevrosi, vissuta all’ombra del padre assassinato dal Fascismo e morta suicida.

L’evocazione di una fine così tragica segna un passaggio. Un effetto scenico divide la morte dalla vita: la cortina di mezzo, su cui veniva proiettata la porta di luce, cade. Si chiude il varco. Per un attimo Concita De Gregorio sparisce nel buio. Poi riappare scalza: «Le scarpe non si lasciano sui letti, la morte sta acquattata nelle scarpe. Una scarpa vuota aspetta un morto; è la porta per passare altrove, è la soglia da varcare», dice la giornalista in un’intervista.
E se nei primi quattro monologhi si è messa nei panni (nelle scarpe) di donne ormai trapassate, ora è scalza, pronta a raccontare il legame alla vita di Lisetta Carmi, l’unica ancora vivente, la più libera di tutte. E forse è lei la risposta alle molte domande inevase di questo spettacolo.
I primi racconti, diversi, eppure con molti elementi in comune come la sofferenza, l’arte, la ribellione, la libertà, la trasgressione, il sesso come richiamo ancestrale e uterino, l’inesausto e a volte disperato dialogo con la figura maschile, hanno messo in luce  ossessioni  e, anziché dare risposte sul femminile, hanno generato nuovi interrogativi.
Lisetta è impastata di vento come le altre donne che l’hanno preceduta. Le comprende tutte giacché dice di aver vissuto cinque vite.
Ora, quasi centenaria, mai ombra di alcun uomo, vive in un ashram induista a Cisternino. Vede le anime. Ha lo sguardo rivolto agli altri, aperto al divino.

 

UN’ULTIMA COSA – CINQUE INVETTIVE, SETTE DONNE E UN FUNERALE 

di e con Concita De Gregorio
regia Teresa Ludovico
musiche live Erica Mou
costumi di Antonio Marras
spazio scenico e luci Vincent Longuemare
prodotto da Teatri di Bari | Rodrigo

Teatro Kismet di Bari dal 19 al 22 e il 26 e 27 ottobre
e al Teatro Radar di Monopoli il 2 e il 3 dicembre