ELENA SCOLARI | Roberto Abbiati è attore, drammaturgo, regista, straordinario illustratore (suoi i disegni per l’edizione Adelphi di Moby Dick e A proposito di Dante, cento passi nella Commedia per Keller ed.). Abbiati è un tipo schivo perché ‘non la mette giù’, è gentile, ha gli occhi vispi e sempre un po’ stralunati sopra a baffoni che lo fanno somigliare a Groucho Marx. Lui non lo dice ma ha ideato alcuni spettacoli gioiello come Una tazza di mare in tempesta – ispirato a Moby Dick – in cui i pochi spettatori entrano in una scatola (la stiva della baleniera), alle pareti ci sono alcune piccole finestrelle, Abbiati è fuori dalla scatola e il pubblico vede lo spettacolo da quei piccoli oblò. 15 minuti sul Pequod di Melville.
Riccardo l’infermo, versione solitaria del Riccardo III, in cui si mescola l’inglese ai dialetti brianzoli; o ancora lo spassosissimo e poetico Pasticceri, io e mio fratello, con Leonardo Capuano.


È interessante come Abbiati sappia avvicinarsi ad autori complessi – Shakespeare, Melville, Kafka – trovando come “ridurli” e come dare luce al loro nucleo incandescente.
Gli abbiamo chiesto come è nato il suo ultimo lavoro, ispirato a Il processo di Franz Kafka e diretto da Claudio Morganti (PREMIO UBU 2021).

Fin dal titolo – Circo Kafka – affianchi due elementi che di primo acchito non sembrerebbero contigui: come hai fatto collimare lo stile ironico ma anche inquietante di uno scrittore come Kafka con il tuo essere un po’ clown? Quale chiave avete scelto tu e Morganti?

Leggendo Il processo ho avuto proprio chiaro che puoi leggere ogni cosa nel modo (e nel mood) che ti senti, puoi scegliere come leggere il racconto. Il Processo può essere letto come una catena di sensazioni: ti svegli e trovi ai piedi del letto due poliziotti, che sensazione hai? Se ricevi una telefonata e ti accusano di qualcosa senza chiarirti bene di cosa, se bussi a porte per capire e chiedere e nessuno ti risponde quale sensazione provi? La chiave è stata ridurre tutto il Processo alle sensazioni che prova il protagonista.
Questa idea è stata il filo conduttore anche per trovare come far vivere al pubblico quelle stesse sensazioni.
Tutta la drammaturgia è costruita come se si rappresentasse qualcuno che parla e nessuno che lo ascolti.
Si dice che poi che Kafka abbia scritto Il processo e che lo leggesse agli amici, man mano che procedeva nella scrittura, divertendoli molto, e in teatro, nel cabaret serio (quello fatto come si deve, ora non se ne fa molto) questo succede, ci sono cabarettisti stranieri che hanno scritto cose comiche su fatti terribili. Un domani potrebbero leggere così anche il mio Circo Kafka.

Tutto “il circo” che vediamo in scena lo hai costruito tu?

Tutto. Io insieme al fonico Johannes Schlosser e a Claudio Morganti. Lui aveva visto il mio Moby Dick (Una tazza di mare in tempesta) e gli era piaciuto, così ho preso coraggio e gli ho chiesto di farmi la regia di questo lavoro. Gli ho detto: “Voglio fare il Processo di Kafka, voglio farlo senza testo, ecco la scenografia” (mostrandogli alcuni bozzetti).
È stata una cosa da incoscienti, come andare da Stravinski e chiedergli di fare la regia di un’opera, dicendogli “ho già buttato giù qualcosa per le musiche…”.
Mi ha risposto: “No, io la regia di una cosa così non te la faccio, però mi piacerebbe molto essere lì con te a vedere come riesci tu a farla”.
Lui era al Metastasio di Prato nello stesso periodo in cui mi ci trovavo anche io per montare lo spettacolo, ci incontravamo spesso nei corridoi e ha cominciato a venire in laboratorio con me, anche per curiosità. Mentre chiacchieravamo sullo spettacolo si lavorava alle scene e avevamo l’avvitatore o la pinza in mano.
(Poi l’ha firmata, la regia, n.d.r.).

Possiamo dire che è stata un’unione fortunata, vero?

Io dico proprio di sì, ci siamo trovati in grandissima sintonia, io sono stato accompagnato a “tirar fuori il mio”. E questa è la giusta regia, quando incontri un buon regista ti dà l’impressione di aver fatto tutto tu e invece ha fatto tutto lui.
Dopo giorni in laboratorio a fare i falegnami e a costruire insieme le scene, tra una chiacchiera e l’altra, sono venute molte idee, abbiamo cominciato a vedere insieme le stesse soluzioni. Il meccanismo è stato: “prova a fare così”, “ok, lo faccio” e piaceva a entrambi. Liscio come l’olio! Abbiamo abbozzato i 50 minuti di spettacolo in quattro giorni. Si costruiva, si montava e poi si chiacchierava, e poi Morganti diceva “Ora andiamo a mangiare in un bel cinese”.

E se non si trova a Prato, un buon cinese!

Infatti, siamo stati molto anche al ristorante, in quel mese e mezzo, in effetti.

Parliamo di come “porgete” lo spettacolo: un uomo in tuta bianca e occhiali neri (tu) accoglie il pubblico mentre entra in sala, lo segue, lo controlla. È un tentativo di far provare al pubblico le sensazioni del protagonista?

L’uomo in tuta è stato pensato prima che le tute bianche ci fossero così familiari per via del Covid, lo spettacolo ha debuttato appena prima che chiudessero l’Italia. La nostra idea è quella del circo, il poliziotto potrebbe essere il personaggio che vende le caramelle al circo passando tra le gradinate. Invece di essere calorosi accogliamo il pubblico così e facciamo qualcosa di vagamente inquietante.

Roberto Abbiati e Claudio Morganti

Questo personaggio è però anche una forma di attenzione, in realtà. Tu sei buffo e non fai paura, non sei minaccioso, piuttosto sei misterioso. In questo inizio noi non abbiamo ganci o riferimenti per capire cosa capiterà come poi non li avrà il personaggio, stranito e vinto da un inspiegabile smarrimento.

Il punto è che molte cose non si spiegheranno nemmeno nello sviluppo dello spettacolo. Perché la sedia alla fine si alza? Non c’è un motivo, è anche un movimento palesato, di cui si vede il meccanismo. Questa è la libertà che si prende l’arte nel non spiegarti tutto.
Se la sedia fosse rimasta ferma non sarebbe stato un finale malinconico.
Cose come queste funzionano particolarmente bene con i bambini e con i disabili, che ragionano con meno sovrastrutture di noi. Hanno spiegazioni bellissime e strane: dicono che la sedia rappresenta l’impiccato e non è sbagliato perché la morte in effetti c’è; oppure che è l’anima del protagonista andata via; oppure ancora che il prossimo a essere ucciso potresti essere tu spettatore. Nella letterarietà della storia, ovviamente.
Sono cose che io e Morganti non abbiamo pensato ma sono letture centrate. Il senso della sedia è un miscuglio di tutti questi elementi.
È talmente una storia assurda che come non se lo aspettava il protagonista potrebbe succedere anche a te, così come non è spiegato perché la sedia si solleva.

Avete scelto di spiazzare il pubblico ma in maniera amichevole, in fondo.

Io faccio quel teatro lì. Surreale quanto basta, un po’ clownesco, costruito con le mani. Con Morganti ci siamo trovati d’accordo su tutto, ha fatto i conti con uno che maneggia la materia teatrale in un modo molto personale: io devo buttarci dentro quello che so fare. Costruisco le scene e le luci in funzione di come sarò e di come starò in scena, se viene fuori qualcosa di bello vuol dire che Abbiati ce l’ha fatta.

Sappiamo che hai in cantiere, anzi: nel laboratorio di falegnameria, un nuovo progetto. A cosa applicherai questa tua cifra così distintiva, stavolta?

Ora sto lavorando a Cuore di tenebra di Conrad. Un romanzo incredibile perché, in buona sostanza, racconta di uno che risale il fiume e gli prende l’ansia. Non si capisce cosa scoprirà, c’è grande mistero e grande tensione, fino alla fine c’è una sospensione totale. Con me ci saranno altri 5 attori in scena e sarà un Conrad… a pedali.

 

CIRCO KAFKA

da Il processo di Franz Kafka
con Roberto Abbiati e la partecipazione di Johannes Schlosser
regia Claudio MorgantI
musiche a cura di Claudio Morganti e Johannes Schlosser
foto di Lucia Baldini
produzione Teatro Metastasio di Prato, TPE Teatro Piemonte Europa

Teatro Pim Off Milano, novembre 2021