RITA CIRRINCIONE | Il Teatro d’immagine del Mediterraneo: questo il tema dell’edizione numero 46 del Festival di Morgana, la rassegna che il Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino organizza dal 1975 per promuovere e valorizzare la cultura del teatro di figura internazionale, tradizionale e contemporaneo. L’edizione di quest’anno, tornata a svolgersi finalmente in presenza a Palermo dall’11 al 21 novembre con un massiccio programma di spettacoli, performance, seminari, laboratori, convegni e mostre, ha visto la partecipazione di compagnie provenienti da Francia, Israele, Spagna, Tunisia e Turchia, oltre che dalla Sardegna, dalla Campania e dalla stessa Sicilia.

Per averci raccontato attraverso lo sguardo innamorato di un bambino quel mondo incantato tra passato e contemporaneità al centro della rassegna, Pupus – un “piccolo” film-documentario incastonato in questo corposo programma – ci è sembrato che potesse emblematicamente rappresentare l’edizione di quest’anno.

Siamo a Borgo Vecchio, quartiere popolare di Palermo dove da quattro generazioni la Famiglia Mancuso, storica famiglia di pupari, gestisce il Teatro Carlo Magno. Carmelo, il figlio minore di Enzo, trascorre le sue giornate tra lo stuolo di marionette assiepate dietro le quinte del piccolo teatro-bottega che come guardiani o antenati, muti e inerti, popolano il suo piccolo mondo. Non si stanca di stare con loro, di animarli e di recitare con enfasi e maestria le varie parti imparate a memoria a furia di sentirle ripetere al padre durante gli spettacoli.

Sembra un mondo destinato all’oblio che cade a pezzi come il pianino a manovella o come le teste dei pupi che hanno costante bisogno di essere restaurate, ma gli occhi del piccolo puparo che brillano mentre immerso in quel mondo fantastico ripete le storie cavalleresche d’amore e di guerra, ci fanno immaginare un futuro possibile. E non importa se anche Alexa, la dilagante e onnisciente assistente Amazon, non conosce la storia di Carlo Magno né quella di Orlando che muore a Roncisvalle che Carmelo le chiede invano di raccontare.

Opera di esordio della giovane regista palermitana Miriam Cossu Sparagano Ferraye, Pupus è una meta riflessione sul mondo dell’Opera dei Pupi che ci viene presentato in un lungo backstage che si dilata inglobando, oltre alla vita del piccolo teatro-bottega, anche quella di una famiglia e di una borgata.

Attraverso un linguaggio antiretorico e un approccio in equilibrio tra partecipazione empatica e giusta distanza emotiva, ne scaturisce un documentario antropologico e al tempo stesso poetico sull’universo simbolico del Teatro dei pupi.
Prodotto dalla sede siciliana del Centro Sperimentale di Cinematografia, Pupus è vincitore di vari premi tra cui il Premio come miglior cortometraggio italiano al Festival Internazionale di Cinema Documentario Visioni dal Mondo (Milano); il Premio della Giuria & il Premio del Pubblico al ViaEmiliaDocFest 2021 (Modena); il Premio della Critica all’Afragola Film Fest.

Dei diversi temi che il film tocca e che travalicano lo specifico argomento dell’Opera dei pupi – il documentario di osservazione nel contesto familiare, il rapporto padre-figli nella trasmissione di un’arte, la scelta fra tradizione e innovazione, l’eredità come ricchezza o come fardello ­– parliamo con Miriam Cossu Sparagano Ferraye.

Nata a Palermo nel 1990, si laurea in Antropologia, religioni, civiltà orientali a Bologna dove prosegue la sua formazione frequentando corsi di Street Photography presso l’IRFOSS-Istituto di Ricerca e Formazione nelle Scienze Sociali e di Cinema etnografico presso l’Etnographic Film School. A Palermo frequenta il corso di documentario del Centro Sperimentale di Cinematografia – Scuola Nazionale di Cinema. Pupus è il saggio di diploma del corso.

Miriam, come è nata l’idea di ambientare il tuo film nel mondo dell’Opera dei pupi? Come mai la scelta è andata al teatro-bottega di Enzo Mancuso?

L’incontro con la famiglia Mancuso e la Compagnia Carlo Magno-Teatro dell’Opera dei Pupi è stato un incontro fortuito; solo in seguito è diventato una necessità narrativa. Nel settembre del 2018, durante un laboratorio di Video Alfabetizzazione Multisensoriale per uno SPRAR di Palermo, abbiamo pensato a un trailer per promuovere il laboratorio in cui dei pupi recitassero il testo che avevamo preparato. Dopo una ricerca tra i pupari palermitani, abbiamo avuto la disponibilità di Enzo Mancuso.

Entrare per la prima volta nel suo piccolo laboratorio/bottega è stato come varcare una soglia e ritrovarsi in una dimensione altra: ho avuto l’impressione di trovarmi in una grotta dove i pupi erano le stalattiti. Trovammo Enzo impegnato a restaurare i pupi mentre Carmelo, il figlio di nove anni, giocava da solo tra le quinte del teatro in penombra. Recitava i versi che già tante volte aveva ascoltato durante gli spettacoli ed era intento a imitare la voce e il tono adulto del padre. Ricordo che Enzo mi disse: “Non si stanca mai di giocare coi pupi!”. Di Carmelo mi colpirono i suoi occhi che brillavano in quel mondo di favole in cui i pezzi grezzi di legno prendono corpo per narrare, come in un eterno ritorno, antiche storie cavalleresche, e mi colpì l’arcana destrezza con cui li animava.

Quando arrivò il momento di scegliere un soggetto per il saggio di diploma, trovandomi a riguardare le immagini di Carmelo riprese un anno prima, è scattata l’idea. Stavo maturando il progetto di indagare la relazione padre/figlio durante il processo di trasmissione di un’arte. In questo caso, come vedremo, la cosa presentava risvolti interessanti vista la trasmissione esclusivamente orale dell’Opera dei Pupi che era stata appena riconosciuta Patrimonio Culturale Immateriale dell’UNESCO.

Le riprese di Pupus sono avvenute in un luogo che è un teatro ma anche un laboratorio artigianale e un ambiente familiare. Quale approccio hai utilizzato per svolgere il tuo lavoro nel rispetto dell’intimità della famiglia Mancuso?

Pupus è un documentario d’osservazione ma anche un documentario etnografico. L’esperienza della ricerca di campo coi suoi tempi e le sue modalità è mutevole e contingente e deve tenere conto della realtà che si sta osservando e dell’occhio che osserva. In questo caso, non avendo scritto una sceneggiatura, non ho chiesto alle persone con cui ho lavorato di mettersi in scena. L’idea era quella di uno scambio reciproco di tempo e di intimità: un processo molto delicato e per nulla scontato anche se lo si è scelto, con un limen che si articola di volta in volta, che a ogni passo si può perdere e ritrovare. Questa è la magia del documentario: un medium o un canale di accesso alle storie di vita e all’intimità degli altri. Nel nostro caso è stato fondamentale il rapporto di fiducia reciproco che si è costruito nel tempo senza il quale sarebbe stato impossibile raccogliere e restituire una dimensione così personale e autentica. Il mio interesse forte era quello di cogliere l’intimità delle relazioni quotidiane di una famiglia, mentre non ero affatto interessata a rappresentare l’aspetto sociale di vite marginali o il solito cliché di una Palermo folcloristica.

Trattandosi di un minore, immagino che il tuo rapporto con Carmelo sia stato oggetto di particolare cura. Quali strategie hai usato?

“Ti va di fare un film insieme?”. A dispetto della differenza d’età il nostro è stato un rapporto alla pari basato sulla fiducia. Anzi, a dire il vero, interiormente mi sono sempre relazionata a Carmelo come sua discepola. Il suo innamoramento verso quel luogo denso di fantasia e di immaginazione ha fatto scattare in me un’autentica fascinazione in primis per il suo sguardo. Da qui il mio tentativo di coglierlo nelle sue svariate sfaccettature senza privare la realtà delle sue difficoltà e complessità. Ci siamo presi per mano e il racconto del film è quello del nostro andare anche se la mia presenza non rientra nel montato finale.

La spontaneità di fronte alla camera, rigorosamente posizionata alla sua altezza per restituire il suo punto di vista, non è stata certo qualcosa di dato ma conquistata attraverso la relazione. Unica regola: non pormi come mera osservatrice. A poco a poco sono diventata parte di quel micromondo, un po’ come uno dei pupi appesi dappertutto. Pupus è un film fatto con e non sulle persone. Il patto tra noi era: “Io faccio il mio lavoro e tu fai il tuo”. Carmelo a volte voleva essere aiutato a tirar giù una scenografia troppo alta o a manovrare un pupo molto pesante oppure semplicemente voleva giocare con me e ci rimaneva male se questo non avveniva. Ho dovuto prestare molta attenzione per osservarlo nel suo mondo senza interferire e stabilire la giusta dimensione affettiva. Adesso che il nostro rapporto filmico è concluso, Carmelo non smette di chiedermi: “Quand’è che facciamo il prossimo film?”.

Nel tuo documentario è molto interessante il rapporto tra Enzo e i figli, e in particolare con Carmelo: si assiste all’esercizio di una funzione genitoriale centrata sul “fare” “insieme” attraverso il medium dell’opera dei pupi. Al di là di quello che si vede nel documentario, avrai avuto modo di vivere da vicino questa relazione. Cos’altro puoi aggiungere?

Entrando in quel teatro-laboratorio la dimensione del tempo mi è sembrata sospesa tra passato e presente, con una vita familiare d’altri tempi sia per il ruolo di pater familias di Enzo ma anche per la quotidianità in cui i bambini erano costantemente a stretto contatto con l’attività lavorativa del padre. Assistevo a un processo di apprendimento di un’arte, alla trasmissione di un mestiere, ma al tempo stesso di un sistema di valori in cui l’insegnamento non era quasi mai esplicito ma affidato, appunto, alla condivisione di un fare. Ho vissuto un modello familiare quasi arcaico, ormai perduto.

Che tipo di rapporto è quello di Enzo con Carmelo? Quanto peso ha in questo rapporto la relazione puparo-apprendista puparo, tra chi ha un’eredità da trasmettere e chi è destinato a raccoglierla?

Nel processo di trasmissione dell’arte dell’Opera dei pupi di padre in figlio, quella di Carmelo è la quarta generazione della famiglia Mancuso ma è la prima che si configura come l’anello instabile di una catena che potrebbe spezzarsi. Se per Carmelo c’è la gioia, lo stupore, il gioco solitario, il bisogno infantile di vivere in un mondo fantastico, per Enzo i pupi sono i custodi della famiglia e prendersi cura di loro, riattualizzare le loro gesta e le loro storie è come salvaguardare e proteggere la famiglia stessa. Tra i pupari palermitani, Enzo è quello più fedele ai canoni della tradizione rispetto a coloro che hanno provato a innovarsi, a sperimentare contaminazioni con altri linguaggi. Paradossalmente questo suo rigore rischia maggiormente di fare scomparire la sua arte e rende particolarmente conflittuale la questione eredità. Se da un lato c’è in lui il desiderio di avere un erede a cui trasmettere il sapere e la tradizione, dall’altro c’è la paura di consegnare il figlio a un futuro incerto, a una vita difficile, fatta di responsabilità, di sacrifici e di pochi proventi economici. L’orgoglio di essere parte di una famiglia detentrice di un sapere antico lotta con il desiderio di garantire ai figli un futuro migliore, diverso dal proprio.

In una scena quasi metafisica, come alieni, gli addetti alla sanificazione fanno irruzione nel teatro con le loro tute e i loro caschi, creando una crasi temporale e cromatica tra un passato arcaico, polveroso e caldo, e un futuro freddo e asettico. La scena ci ricorda che il film è nato in piena pandemia. Quanto e come questo elemento ha interferito nel tuo lavoro durante le riprese?

Non sentivo la necessità di parlare di pandemia ma di lasciarla solo intravedere per l’influenza che ha avuto sulla vita del teatro. Per quanto mi riguarda la situazione che si è venuta a creare ha contribuito a costruire e a consolidare il mio rapporto con Carmelo e con il resto della famiglia. Durante il primo lockdown quando non potevamo vederci, prima della fase delle riprese, ci siamo tenuti in contatto a distanza quasi quotidianamente. In quel periodo di isolamento avere a che fare con dei bambini ha fatto bene soprattutto a me. Il fatto poi di vivere una condizione di difficoltà condivisa fatta di chiusura, di morte e di paura ci ha avvicinato ancora di più creando un territorio privilegiato per lo scambio di emozioni e di sentimenti.


PUPUS
(33′), Italia, 2021

regia Miriam Cossu Sparagano Ferraye
produzione Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia – Scuola Nazionale di Cinema-Documentario (Sede Sicilia)
montaggio Miriam Cossu Sparagano Ferraye
fotografia Miriam Cossu Sparagano Ferraye
musiche Vincenzo Caravello