MATTEO BRIGHENTI | L’ammissione di colpa rende liberi; la dedizione alla causa rende schiavi. E l’una si rivela insieme, o meglio attraverso l’altra, come un aereo che va controvento per vincere il suo peso: la gravità di tutte le cose.
Claude Eatherly, il pilota di Hiroshima, riconquista il volo riscoprendo la semplicità del vivere; Günther Anders, antinuclearista convinto, rimane a terra, schiacciato da una battaglia idealistica che mira a salvare l’umanità, ma finisce per perdere di vista l’individuo. È un sorprendente nodo tragico quello che Marco Di Costanzo scova nelle settantuno lettere che il filosofo ebreo tedesco e il Maggiore americano si scambiano tra il 3 giugno 1959 e l’11 luglio 1961, e che adatta per la scena con Little Boy, l’ultima produzione del Teatro dell’Elce.
Un intreccio di parole alte, dense, vertiginose, che ha debuttato nel novembre 2019 con Erik Haglund, Stefano Parigi, Monica Santoro, e che ora si presenta in una versione rinnovata con Domenico Cucinotta al posto di Haglund.

Foto di Monia Pavoni

L’atomica è l’arma più letale e più feroce che sia mai stata creata: accresce il potere distruttivo dell’uomo a livelli inimmaginabili. La prima bomba nucleare della storia, la Mk.1, – “Little Boy”, “ragazzino” in italiano, per via delle sue ridotte dimensioni – a Hiroshima il 6 agosto 1945 uccide all’istante tra le 66mila e le 78mila persone, e altrettante ne ferisce. Tra Hiroshima e Nagasaki il numero delle vittime dirette è stimato tra le 150mila e 220mila persone.
Nei decenni successivi uno e soltanto uno dei novanta militari coinvolti nelle missioni atomiche americane si fa avanti per denunciare la sproporzione del suo gesto e per dichiarare pubblicamente il suo rimorso: Eatherly. Texano, all’epoca dei fatti 26enne, il Maggiore è il pilota dell’aereo meteorologico incaricato di valutare la visibilità degli obiettivi giapponesi.
Quella mattina trasmette il seguente messaggio in codice all’equipaggio del tristemente celebre Enola Gay comandato dal Colonnello Paul Tibbets Jr: «Stato del cielo su Kokura coperto. Su Nagasaki coperto. Su Hiroshima sereno, con visibilità dieci miglia sulla quota di tredicimila piedi». È l’atteso via libera al lancio dell’ordigno di guerra.

Il Maggiore Claude Eatherly. Negativo del National Museum of American History

Dodici anni dopo, nell’aprile del 1957, la rivista “Newsweek” gli dedica un articolo dal titolo inatteso Eroe in manette. Sembra impossibile, ma Eatherly è in prigione dopo aver fatto irruzione in due uffici postali nelle zone rurali del Texas. Entra ed esce dall’ospedale psichiatrico di Waco. Ha scontato un periodo di detenzione a New Orleans per aver falsificato un assegno. È stato coinvolto in una serie di rapine in piccoli negozi di alimentari.
Sono tutti reati che hanno una cosa in comune: sono eseguiti in modo maldestro, tanto che almeno una volta il militare è scappato senza la refurtiva. In realtà, soffre di un complesso di colpa. Delinque perché vuole essere scoperto, giudicato un criminale e punito per i suoi crimini, e quindi per l’atomica.
Nel 1959 Anders si imbatte, per caso, in quell’articolo. Agli occhi del filosofo, allievo di Husserl e di Heidegger, la figura di Eatherly rappresenta appieno quel “divario” o “dislivello prometeico” al centro del suo capolavoro, L’uomo è antiquato. Ossia, la discrepanza tra il tremendo potere delle invenzioni dell’umanità e la limitata capacità di ognuno di comprenderne e, più ancora, di controllarne le implicazioni pratiche e morali. Per questo, su invito anche dalla sua terza moglie, Charlotte Zelka, decide di scrivergli.

Claude Eatherly mentre parla con un giornalista in una prigione della città di Dallas dopo essere stato arrestato per tentata rapina a mano armata nel marzo 1959. Foto di FK/Associated Press

Così, i primi che entrano in gioco per Little Boy sono proprio loro. Parigi è Günther Anders, Santoro è la sua consorte. Si aggirano in un MAD Murate Art District di Firenze ingombro di libri, pile e pile che si alzano da terra come tanti funghi atomici e gettano le loro ombre in una notte che cala inesorabile. L’intelletto, il sapere, l’ingegno, hanno armato l’atomica: solo da lì può venire la risposta per disarmarla. Questo, si direbbe, è ciò che Anders crede nel profondo. L’ambiente stesso, le scene e le luci di Beatrice Ficalbi, sembrano farsene carico, quasi fossero l’eco, l’estensione, la manifestazione concreta del pensiero del filosofo.
Siamo dunque nello spazio chiuso della sua mente. Lui ne è l’attore protagonista, certo, ma anche il regista, con l’aiuto di Zelka, una presenza pressoché muta, ma benevola, che argina la sua irruenza e smussa la sua rigidità. Se lui, in qualche modo, incarna il principio di realtà, cioè la vicenda in sé e per sé, lei, invece, dà corpo al principio di rappresentabilità, ovverosia a tutto quello che la vicenda racconta. È lo spirito del teatro, in sostanza.
Non a caso, è appunto Monica Santoro/Charlotte Zelka che fa con la bocca il rumore del rombo di un aereo e richiama con loro Cucinotta, che si presenta come Claude Eatherly. È l’innesco di un vocabolario da surrealismo magico, un codice narrativo tra la memoria e la finzione, tra l’immaginario e il ricordo. Little Boy è reale e, al tempo stesso simbolico, a cominciare dalla colpa impunita del Maggiore, che lo perseguita e assilla nel manicomio di Waco, dove la lettera di Anders lo raggiunge.

Foto di Monia Pavoni

Il filosofo designa il pilota come il «precursore» di una condizione esistenziale inedita: essere «incolpevolmente colpevoli». Altro che matto: è la personificazione della coscienza. Gli altri, la società, lo considerano pazzo solamente perché non accettano che anche le loro mani grondino sangue.
Perciò, non vuole che resti rinchiuso un giorno di più, né, in concreto, con il corpo, né, in astratto, con la mente. Missiva dopo missiva lo incoraggia a unirsi alla causa antinucleare, a riconoscere la sua responsabilità davanti ai giapponesi e, di conseguenza, a riconoscere che anche lui è una vittima. Anzi, è L’ultima vittima di Hiroshima, come si intitola la corrispondenza ripubblicata in Italia da Mimesis, con la cura di Micaela Latini.
Eatherly si risveglia dal suo torpore paranoide nell’abbraccio con Charlotte Zelka, che ha tradotto in inglese I comandamenti dell’era atomica scritti dal marito e li fa vibrare nell’aria che separa l’uomo di azione dall’uomo di ragione. Così, il Maggiore chiede perdono al popolo giapponese con un telegramma e trenta «ragazze di Hiroshima», giovani hibakusha, o vittime della bomba atomica rimaste in vita, ma segnate dall’esplosione, gli rispondono: «Abbiamo imparato a provare verso di te un sentimento di solidarietà, a pensare che anche tu sei una vittima della guerra come noi».

Foto di Monia Pavoni

Domenico Cucinotta, Stefano Parigi, Monica Santoro, sono un’orchestra di intelligenza e di generosità attorali. Suonano un materiale con l’andare del tempo sempre più ostico, più smisurato, al limite dell’indicibile, con il respiro di una presenza vivace e rigorosa, in ascolto partecipe di una leggerezza compassionevole e smitizzante. Invero, Di Costanzo disegna per loro una precisa mappa dei diversi stati d’animo, riportati alla luce dalle profondità del carteggio per mezzo della dinamica relazionale di alleanze/contrapposizioni, distanze/vicinanze tra gli interpreti e della loro interazione con gli oggetti di scena.
Emblematico è il momento in cui Anders invita Eatherly a scrivere le sue memorie prima che un autore qualunque si impossessi della sua biografia e la trasformi in una storia, prima che il cinema, Hollywood, prendano il suo tormento interiore e ne facciano la posa di un personaggio da vendere sul mercato. Il filosofo raccoglie i libri e li tira al Maggiore, che, a sua volta, si impegna a prenderli al volo, a rimetterli a terra e poi a camminarci sopra. Scivola, cade, ma ogni volta si rialza e ricomincia daccapo. Fare ordine nelle parole è cercare un equilibrio, un passo e una voce per dire ciò che sente davvero: la sua verità.
Per terra, da ultimo, i volumi tracciano il profilo di un aereo visto dall’alto, la croce che inchioda e, al tempo stesso, fa risorgere Claude Eatherly. È il punto di massimo slancio di Little Boy. È, in qualche modo, l’inizio della fine.

Foto di Monia Pavoni

La costruzione di un’amicizia degenera nella sua distruzione. Smessi i panni di Charlotte Zelka, Santoro rientra con un camice da dottoressa. Ripone via i libri e quindi il contatto, lo scambio, l’apertura di credito e di fiducia di Eatherly in Günther Anders. Al posto della sospirata pena espiatoria, il militare viene amnistiato per i suoi piccoli reati, dichiarato malato di mente e costretto a subire trattamenti psichiatrici. Nemmeno il fratello intende assumersi la responsabilità di farlo dimettere da Waco.
L’istituzione, la paura, sembrano prevalere sulla volontà, sulla determinazione del militare. I libri, adesso, sono un cerchio del sapere che non lo proietta fuori, ma lo chiude dentro di sé. Eatherly non guarda quasi più in faccia Anders, forse dalla vergogna, e spegne la candelina del loro primo anno distanti, ma insieme, soffiando sul fuoco del ricordo indelebile di Hiroshima.
È un quadro agghiacciante. Gli occhi di Cucinotta sono due fosse nere. Si accendono unicamente quando guarda in su, verso l’alto del suo futuro. Ritrovarsi a contatto con la morte, stavolta, gli fa scegliere la vita: fugge da Waco. È il secondo, definitivo risveglio di Claude Eatherly, e coincide con la terza e ugualmente decisiva trasformazione di Monica Santoro nella donna che lo segue fino in Messico, a Tijuana.

Foto di Monia Pavoni

Lo spirito del teatro si tramuta in spirito vitale nel sottrarsi al puro gioco delle parti e quindi anche alla visione esclusiva di Anders. L’interpretazione di Little Boy qui è sostenuta da tutta una letteratura parallela su Eatherly, sull’ambiguità e sull’opportunismo del suo pentimento pubblico, rintracciabile in articoli come questo del 1962 di Ronald Bryden per “The Spectator” o questo del 2007 di Georg Geiger per “Tumultes”.
L’unico che non cambia e, probabilmente, non cambierà mai, è Günther Anders. Rimane da solo con i suoi volumi, ormai inutili e incomprensibili, alla stregua di amici immaginari che si parlano l’uno sull’altro (il suono è di Andrea Pistolesi). L’amico vero se n’è andato, non risponde più. Ciononostante, Anders continua a cercarlo. Il 26 febbraio 1962 non lo sente da quasi un anno, eppure nella postfazione all’edizione americana della loro corrispondenza afferma:

«Sebbene lo status di Claude sia cambiato, il caso Eatherly non è obsoleto. Al contrario, è così nuovo che non è stato ancora compreso. Perché è stato il primo a tradurre il carattere della nostra epoca nel linguaggio della vita individuale; il primo la cui vita è stata determinata esclusivamente dai fatti e dai timori dell’era atomica; il primo che si è opposto a conformarsi al comportamento richiesto nell’era atomica da una società conformista; il primo che si è rifiutato di ignorare o sminuire o aumentare o sfruttare il pericolo come tutti noi dovremmo fare».

Non conta che l’uomo sia finalmente libero, perché «era libero anche prima di scegliere la libertà». Conta ciò che lui rappresenta, anche se non è più presente: il caso di coscienza. Siamo prossimi al delirio, o comunque alla perdita di contatto con la realtà dei fatti, accecati da convinzioni granitiche, tautologiche, vere per definizione, quindi vuote d’informazione.

Foto di Monia Pavoni

Da qui in poi, dalla allucinazione del filosofo da onnipotenza della causa, diciamo così, comincia una sequela di finali che, secondo noi, alla lunga sfoca la prospettiva del traguardo agli ultimi metri. Il regista in campo, ovvero Anders, orfano, peraltro, dell’aiuto arginante di sua moglie, si lascia sopraffare dalle sue visioni, e lo stesso capita al regista vero e proprio, a Marco Di Costanzo. La direzione scappa di mano a entrambi.
Può darsi che avrebbe giovato aprire il testo ad altre suggestioni letterarie, accostando il filosofo, ad esempio, a Don Chisciotte e al tema del rapporto fra la realtà e i libri. Ci sarebbe voluto, insomma, un intervento drammaturgico che permettesse di penetrare del tutto gli esiti e il cuore, oltre che i propositi e la mente, di Günther Anders. Magari, perché no?, con un colpo di teatro nel teatro e il rispecchiamento conclusivo nell’accanimento del filosofo dello stesso Di Costanzo, che alla “causa” della rappresentazione si dedica almeno dal 2018.

Foto di Monia Pavoni

A pensarci bene, è originale il “peccato” di un certo qual distacco dall’oggi, nel senso che parte dall’origine. Una mela rossa come quella della colpa di Adamo, ago della bilancia e bussola dell’incontro in scena, ci spetta appena entrati in sala. Quasi che la nostra sia una responsabilità ancestrale, che ci riguarda da prima, in quanto esseri umani.
Al contrario, essendo arrivati fin qua, a nostro avviso ha a che vedere soprattutto con Little Boy, e inizia quando lo spettacolo è concluso. Ci piace allora immaginare cosa significherebbe dare le mele all’uscita: sarebbe la presa di posizione finale, contribuirebbe a calibrare tutte le scelte sulla traiettoria di una tensione davvero “disarmante”. Per di più nel pieno rispetto dell’orizzonte dello scambio tra Claude Eatherly e Günther Anders. Perché il volo guarda per definizione in avanti, a ciò che ancora non c’è, al domani, al futuro.

LITTLE BOY
Corrispondenza tra il filosofo Günther Anders e Claude Eatherly, il pilota di Hiroshima

adattamento e regia Marco Di Costanzo
con Domenico Cucinotta, Stefano Parigi, Monica Santoro
suono Andrea Pistolesi
scene e luci Beatrice Ficalbi
costumi Laura Dondoli
organizzazione Francesca Pingitore
produzione Teatro dell’Elce
residenze artistiche FLOW – Teatro Cantiere Florida, Armunia – residenze artistiche Castiglioncello, Fondazione Fabbrica Europa – PARC_Performing Arts Research Centre, Le Murate Progetti Arte Contemporanea, AttoDue, Archètipo Associazione Culturale
con il sostegno di Regione Toscana, Fondazione CR Firenze

MAD – Murate Art District di Firenze
9 dicembre 2021