ROSSELLA PICCARRETA | La pescatrice di perle, in Giappone, è la ragazza capace di immergersi senza attrezzature negli abissi per trovare i preziosi doni del mare, è coraggiosa e fiera della propria libertà. Sicuramente la sua fierezza, nonché la capacità di scovare tesori e donarli al mondo, sono qualità anche della protagonista dell’omonimo spettacolo della compagnia Acasâ, andato in scena – dopo il debutto al Teatro Comunale di Ruvo – nel giorno della Memoria al Teatro Kismet di Bari all’interno della rassegna Tutto Cambia, curata da Teresa Ludovico.

Il suggestivo titolo dello spettacolo, che ha meritato il premio della Stampa al Roma Fringe Festival 2021, ha però un’altra origine: prende spunto da un saggio di Hannah Arendt, un ritratto dell’intellettuale Walter Benjamin, definito da lei «il pescatore di perle» per la sua straordinaria capacità di raccogliere le frasi più belle della nostra tradizione da testi dimenticati e diventare, così, collezionista di parole.
Perché, si sa, le parole sono importanti e definiscono ciò che siamo, come sostengono   Arendt e lo stesso Benjamin, convinto che il  padre della filosofia sia stato Adamo, per il solo fatto di aver dato per primo il nome alle cose.

Foto Mariagrazia Proietto

Che la protagonista del monologo sia la filosofa ebrea ci viene svelato in scena dopo un inizio di spettacolo suggestivo e misterioso.
Il palcoscenico è  quasi vuoto. La scenografia è minimale, le luci soffuse. In primo piano una panchina vuota. Sul fondale scuro, a sinistra, è appeso un fantoccio, quasi un abbozzo di uomo in croce, vagamente inquietante. A destra, dietro una cortina, in penombra, su una seconda panchina identica alla prima ma in secondo piano, lontana, è seduta una donna in  tailleur rosso avvitato, un po’ retrò, con i capelli raccolti e le scarpe con il tacco. Pare di un altro tempo o di un’altra dimensione.
È ferma e guarda avanti, mentre una voce fuori campo recita una parabola di Kafka. Le parole vibrano e si diffondono. Nel frattempo i pochi oggetti sul palcoscenico sono avvolti da una nube di fumo; la donna si alza, avanza, affiora dalla nebbia del tempo e inizia a dialogare con il pubblico. Le luci (di Michelangelo Campanale) disegnano la figura della donna come in una fotografia d’altri tempi, giocando con i chiaroscuri e con le ombre.
Si presenta e scopriamo che è Hannah Arendt, bene interpretata da Marianna De Pinto in una drammaturgia originale di Valeria Simone, anche regista dello spettacolo.

Foto Mariagrazia Proietto

È lei la pescatrice di perle, capace di raccogliere dagli abissi della storia tesori del pensiero e donarli al mondo. È l’apolide ebrea che si rifugia negli Stati Uniti portando con sé solo la sua lingua madre, le poesie tedesche conservate nella memoria e i manoscritti dell’amico Benjamin, morto suicida. La drammaturga la fa parlare tramite alcune frasi inventate ad hoc per il personaggio e altre realmente pronunciate o scritte dalla filosofa e saccheggiate dalle sue opere. E così, in un abile gioco di specchi, anche Simone diventa, a suo modo, una pescatrice di tesori, ridando vita e respiro a un’importante pensatrice del Novecento e alle sue parole.
Minuzioso è stato lo studio del personaggio, compiuto sia dall’attrice sia dalla regista, talmente attento ai dettagli riguardo il pensiero, la parola e il gesto, da soffermarsi persino su particolari minimi come il modo di tenere in mano la sigaretta o la postura della testa e del corpo. L’attrice ha il piglio dignitoso e appassionato della Harendt, l’intellettuale che insegna ancora oggi a pensare e a osservare il mondo con sguardo limpido, libero dai luoghi comuni.

Foto MG Morea

Eppure la scelta drammaturgica è stata quella di ridurre gli elementi autobiografici agli eventi essenziali, mettendo in scena direttamente il pensiero di Hanna Arendt.
Il monologo, infatti, non vuol essere semplicemente il racconto della vita della filosofa, quanto piuttosto la dichiarazione di un’etica coraggiosa e necessaria. I riferimenti alla storia e ai fatti sono funzionali all’espressione del pensiero e ogni idea è il parto doloroso e fiero di chi l’ha vissuto sulla propria pelle.

Il messaggio è chiaro: «Noi siamo quello che diciamo, ma anche quello che facciamo e che facciamo insieme agli altri». E se consideriamo che nasciamo liberi perché «quando fu creato l’essere umano (…) fu creato anche il principio di libertà», è chiaro che è indispensabile un’assunzione di responsabilità quanto mai utile nei tempi in cui viviamo. Dalla riflessione sulla «banalità del male» emergono spontanee le domande sulla nostra capacità di distinguere il bene dal male, ciò che è giusto da ciò che è sbagliato e su quanto questa abilità sia collegata alla nostra capacità di pensare. Tutto va ricondotto alla parola coscienza: è essa «che ci dà già delle risposte, perché significa conoscere attraverso se stessi».
A tal proposito la regista in un’intervista afferma: «Il male compare ogni qual volta le persone non sono in grado di porsi domande. Quando questo accade, quando c’è la perdita della coscienza, il male può comparire». E ciò può accadere sotto regimi totalitari ma anche all’interno di stati democratici, perché apre il varco alla violenza.
Lo spettacolo si propone pertanto di essere un esempio di teatro etico, necessario, assolutamente utile, capace di porre domande sempre attuali.


LA PESCATRICE DI PERLE
(breve conversazione con H. A.)

Spettacolo vincitore del premio della Stampa al Roma Fringe Festival 2021
drammaturgia e regia Valeria Simone
con Marianna De Pinto
scene e disegno luci Michelangelo Campanale
oggetti di scena Porziana Catalano
comunicazione e ufficio stampa Marilù Ursi
progetto grafico Maria Grazia Morea
una produzione Acasâ
con il sostegno del TRAC_Centro di residenza pugliese

Teatro Kismet di Bari
27 gennaio 2022