RENZO FRANCABANDERA | Equilibrio dinamico è il progetto per il nuovo triennio di Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse che ha l’ambizione di ripartire dal pubblico, per un percorso di lavoro animato da progetti, dialoghi, confronti, collaborazioni, contaminazioni da condividere.
In questa direzione va inquadrata anche la personale, in programma dal 4 al 7 marzo, dedicata alla Compagnia Barletti Waasb, con tre spettacoli e un incontro dal vivo per offrire al pubblico la possibilità di conoscere da vicino il lavoro di questi due artisti in quattro giornate a loro completamente  dedicate.
Lea Barletti e Werner Waas si sono conosciuti molti anni fa a Roma. Da allora vivono e lavorano insieme e hanno prodotto, diretto e interpretato un gran numero di spettacoli, fondato una compagnia teatrale (Induma Teatro), cofondato il Centro Culturale Multidisciplinare Manifatture Knos a Lecce, tutt’ora attivo, organizzato tra il 2008 e il 2015 il Festival/Laboratorio di arti performative “K-now!” di Lecce, fondato la compagnia Barletti/Waas, con la quale attualmente girano e lavorano tra Germania e Italia.

Al Teatro della Tosse presenteranno il 4 marzo  AUTODIFFAMAZIONE/SELBSTBEZICHTIGUNG di Peter Handke, il 5 MONOLOGO DELLA BUONA MADRE di Lea Barletti e il 6 e 7 ANTIGONE di Sofocle/Hölderlin/Sinisi.

Li abbiamo intervistati a ridosso di questa personale.

Lea, Werner che sensazione vi dà fare Teatro oggi? È ancora un medium per il nostro tempo o sentite un sapore un po’ vintage di questo linguaggio?

Lea: Io non sento nel teatro alcun sapore vintage. Sentire sapore vintage nel teatro vorrebbe dire sentirlo nel corpo. Il corpo è ancora necessario, il teatro è ancora necessario.
E sento molto vicina la definizione che del teatro ha dato Castellucci: è “l’arte pericolosa per eccellenza”. La sua pericolosità sta nel suo essere un incontro, dal vivo. Non si può mai prevedere quello che nascerà da un incontro. E all’inizio di tutto c’è sempre un incontro (o uno scontro): tra materie, tra elementi chimici, tra visioni del mondo, tra opinioni, tra poteri, tra sentimenti… e tra attori e spettatori. Ecco, la sensazione che mi dà fare teatro oggi è quella di praticare uno spazio vivo per il pensiero, il dubbio, il dialogo. Praticare uno spazio dove può ancora accadere qualcosa.

Werner: Fare teatro mi fa sentire vivo, partecipe e partecipato. Personalmente avverto una vera necessità, anche da parte del pubblico, di questo rito comunitario fatto di corpi, respiri, parole, pensieri e visioni che si incontrano e mescolano in uno spazio comune reale. Non vi trovo nulla di vintage, anzi, è un affondo nel contemporaneo in tutta la sua vulnerabilità, solitudine cosmica, umano smarrimento che solo parzialmente si riesce a nascondere tramite il rumore e la distrazione continua del mondo digitale  Fare teatro oggi è come piantare alberi: è un segno di speranza, un lavoro rivolto al futuro.

Voi cosa trovate, per voi stessi, oltre il lavoro, dentro la vostra pratica teatrale? È ancora il sogno modificativo dei vostri 30 anni? 

Lea: Credo che la risposta a questa domanda sia più o meno la stessa che ho dato alla prima. In altre parole, potrei aggiungere che nella nostra pratica teatrale trovo ancora, anzi sempre di più, per una questione di consapevolezza che negli anni è cresciuta, un modo per guardare il mondo e parlare del mondo.
Parlare quindi non di me, non di noi, ma, attraverso di me, di noi, parlare del mondo. Tutto il contrario dell’autoreferenzialità o autocelebrazione. È un atto creativo, la creazione di uno spazio per il pensiero.

Werner: Non è più la stessa utopia dei 30 anni ma è ancora un’utopia. A 30 anni pensavo che si riuscisse davvero a intervenire con il teatro nei meccanismi della società, che fosse uno strumento formidabile per la creazione di processi sociali collettivi e quindi con una funzione politica diretta. Oggi mi sembra che questa visione sia stata ingenua, il processo è molto più indiretto, più complesso, se vuoi. È come con l’educazione: non si educa in via diretta, o almeno solo in minima parte. Il messaggio politico arriva molto più efficace se non si mostra come tale, se non si tematizza da solo ma invece si lascia scoprire in un esempio, in un modo di guardare le cose, nell’apertura di nuovi spazi mentali. Scoprire che è possibile uscire dalle logiche automatizzate della percezione, imparare a guardare ex novo, è un atto politico fondamentale. Oggi parlo del presente ma quasi mai dell’attualità, anzi la rifuggo.

Avete praticato il contemporaneo in modo ampio, affacciandovi anche su strapiombi drammaturgici assai vertiginosi, come i testi di Handke, per esempio. Come si sceglie di mettersi a nudo in scena? Che significa per voi nel racconto della vostra esperienza con il pubblico?

Lea: Ti confesso che a volte invece che “perché la nudità?”, mi sono ritrovata a chiedermi:  “perché un costume?” Forse se l’abito fa il monaco, la nudità fa l’essere umano. Scherzi a parte, potrei dire che per noi la scelta della nudità, quando avviene, è una scelta di non interporre nulla tra noi e la parola, tra noi e il mondo, tra noi e gli spettatori. Una scelta di assoluta non belligeranza, di vulnerabilità: “Guardami, sono esattamente come te”. Siamo nella stessa barca. Nel caso di “Autodiffamazione”, la barca è la lingua, lo strumento/abito attraverso il quale cerchiamo di comunicare, di capire il mondo, di farlo nostro. Per questo abbiamo voluto che ognuno di noi due parlasse nella sua lingua madre: perché, pur nella differenza di fattura dell’abito, la gabbia è la stessa.

Werner: La scelta di metterci a nudo era solo una conseguenza naturale del modo di stare in scena richiesto da quel particolare testo di Handke: lasciarsi guardare, senza difese, senza filtri, senza maschere, senza un proprio messaggio o una storia da raccontare, come testimoni, in rappresentanza di altri, di quello che significa venire al mondo e scoprire passo dopo passo quell’insieme di segni, parole, regole nel quale si impara a crescere. Attraverso questo semplice meccanismo, di prestarsi a essere la materia necessaria sulla quale ogni singolo spettatore può proiettare il proprio processo interiore, si crea nel corso dello spettacolo un clima di intimità e di appartenenza reciproca fra noi e il pubblico incredibilmente intenso. Fa credere o sperare nella reale possibilità di comunicazione o di qualcosa come comunità, anche se solo temporanea. Creiamo lo spettacolo tutti insieme, lavoriamo in parallelo, non c’è più il prodotto da una parte e il consumatore dall’altra, anche questo lo considero un atto politico.

La pratica del teatro per pochi nelle case, oltre che un espediente reso necessario dal Covid, che cosa ha aggiunto al vostro ragionare sul linguaggio? 

Lea: È un’ulteriore avvicinamento al pubblico. Un modo per creare comunità, micro cellule di presente, micro società di pensiero e scambio. Una cosa estremamente viva e fertile. Si torna a casa (propria) avendo la netta sensazione che quello che si è fatto è vivo e utile. È il padrone di casa, l’ospite, a invitare gli spettatori tra la sua cerchia di amici e conoscenti, non noi, non l’organizzazione di un teatro e questo significa che spesso si tratta di non addetti ai lavori, e anche in parte di persone che altrimenti magari a teatro non ci andrebbero, o comunque non a vedere noi… Qui a Berlino a un certo punto alcuni nostri vicini sono venuti a sapere che facevamo “teatro negli appartamenti” e ci hanno chiesto se ci andava di farlo nel loro giardino. Dunque abbiamo fatto Antigone davanti al vicinato, una quarantina di persone circa… Ritrovarsi dopo, a bere un bicchiere di vino e parlare di tragedia greca con i propri, fino a quel momento, pressoché sconosciuti vicini… è stata una cosa bellissima, impagabile.

Werner: È da tempo che cercavamo una possibilità per noi di arrivare al tragico, a quella pienezza di espressione, all’assunzione personale di responsabilità per le parole, in così forte contrasto col postmoderno e la cultura del sampling perennemente ironico e irriverente. L’abbiamo trovata in Hölderlin, nel suo modo solitario (e deriso dai più) di far sua la tragedia nelle sue traduzioni, di viverla fisicamente dentro di sé, nella sua testa, nel suo corpo. Da lì è nata l’idea della riduzione a soli due personaggi, Antigone e Creonte, che contengono in sé anche i conflitti con i loro „altro da sé“ Ismene e Emone, di trovare la tragedia, cioè, a un livello intimo, dentro ciascuno di noi. A livello generale si potrebbe dire che il linguaggio è tutto. Poi, al di là di questi ragionamenti sulla tragedia e il linguaggio, il fatto di fare teatro nelle case per assurdo accentua l’aspetto comunitario. Ogni volta si creano nuclei di società riattivizzata, mentre si parla dopo e anche prima dello spettacolo con gli spettatori in una situazione di vicinanza, alla pari, senza la barriera del palcoscenico.

Cosa siete voi oggi artisticamente? Chi siete? Vi sopportate più in scena o nella vita?

Lea: Non ci sopportiamo né in scena né nella vita, semmai ci supportiamo…
Scherzo, però discutiamo molto, sempre e ovunque. Per esempio, il desiderio di fare Antigone è nato proprio da questo nostro continuo “discutere”, sul chiederci costantemente cosa è giusto e cosa è sbagliato, dov’è il discrimine, il confine…
Non abbiamo risposte. Siamo pieni di dubbi, umani e artistici. Ci poniamo domande. Cerchiamo strade. Facciamo un sacco di errori. Siamo vivi. 

Werner: Siamo ai margini, esattamente come 30 anni fa. A volte, e per certi versi è vero, ci sentiamo ancora come degli esordienti. Negli ultimi 10 anni, a partire da Autodiffamazione, abbiamo sviluppato un linguaggio scenico molto personale, forse si può chiamare stile, non saprei, comunque inconfondibile, un modo di stare in scena che non ha bisogno di molte delle cose che normalmente si associano al teatro, non ha bisogno di finzione, di quarta parete, di trama (anche se questo è un tema che comincia a intrigarci), di scenografia, di luci, di costruzioni psicologiche, di verosimiglianza, di fascino e… e… e…  Abbiamo bisogno di testi, oggi come trent’anni fa è il nostro materiale di partenza. Sul “chi siamo” abbiamo scritto una specie di manifestino che si trova sul nostro sito.
In scena ci sopportiamo benissimo, nella vita a volte può essere più faticoso, come per tutti, ma fa parte del gioco.

Quali progetti avete in cantiere? Come funziona questa esperienza nomade fra Italia e Germania? È vero che il migrante, e quello artistico ancora di più, per un verso non è più… e per altro non è ancora…, e quindi resta in un limbo ancora più grande? 

Lea: Credo che non sentirsi a casa sia una condizione comune a molti artisti, anche quelli che sono rimasti a vivere e lavorare nel proprio paese. Chi come noi si è spostato ha solo più chiara questa sensazione, come dici tu, di limbo. Poi noi, essendo io italiana e Werner tedesco, come coppia artistica saremo comunque sempre per metà “migranti”. In realtà si tratta sempre di una ricerca della propria lingua, nel senso anche di lingua artistica, e allora forse averla in qualche modo “perduta” aiuta a cercarla con maggiore necessità e intensità. Non è un caso che è proprio da quando siamo venuti a vivere qui in Germania, che ho cominciato a scrivere.

Werner: Stiamo scoprendo un autore nuovo per noi, Samuel Beckett, e lo accostiamo aduno che conosciamo benissimo, Peter Handke, che ha scritto un’eco, come la chiama lui, a uno dei grandi testi di Beckett ossia all’Ultimo nastro di Krapp con un monologo femminile da contrapporre a quello maschile di Krapp, un altro mondo proprio di concepire la parola, il “prendere parola”, l’arte e la rappresentazione, sono come due teatri che si affrontano – e quello di Krapp sinceramente finora lo conosciamo poco. È quindi un lavoro anche sulla tradizione, sul personaggio, sul controllo maniacale. Accosteremo questi due monologhi, forse li incastreremo, vedremo dove ci conducono. Poi vorremmo ancora di più affondare nel tragico, nella tragedia, ci sarà un seguito all’Antigone prima o poi. Poi Lea continuerà a scrivere, parole vive, e quindi di lavoro da fare ce n’è.
Sul limbo, non so, mi sembra che ci siamo dentro un po’ tutti, il senso di appartenenza scema sensibilmente, i mondi si assomigliano sempre di più: stessi prodotti, stessi discorsi, stesse mode, stessi problemi … un limbo gigantesco, è vero. Come uscirne?