ELENA SCOLARI | Una donna, con un abitino estivo color marrone bruciato, calzini e sandaletti in tinta. Comodi, quei sandali, lo dice anche lei. È in mezzo a una scena vuota, vuotissima. La donna volta la testa per parlare a suo marito, alla sua sinistra, Sergio. Lui le risponde ma noi non sappiamo cosa; facile poi dire che gli uomini sono assenti, che decidono tutto le donne, in casa.
La protagonista di questo monologo mascherato da dialogo si muove poco, tiene i piedi fermamente saldi in un punto della terra che la fa sentire sicura, si china solo per bere da una bottiglietta, di tanto in tanto. Ci parla di piccole cose, buffi ricordi familiari, amiche della suocera talmente ferrate sull’attualità da destare sospetti, segni zodiacali sfortunati. L’accento toscano dell’attrice svela note di una vita normale, appese alle linee di un pentagramma quotidiano, senza picchi, una melodia fatta tutta dal colore dato da bemolle e fa diesis, le variazioni minime di una piccola sonata intima, forse iniziata prima che cominciamo a sentirla.

Abbiamo intervistato Francesca Sarteanesi – prima fondatrice del gruppo Gli Omini e poi attrice solista con Bella bestia – autrice e interprete di Sergio, ed ecco cosa ci ha raccontato di lui e dello spettacolo che gli gira intorno tenendolo sempre ben nascosto.

Partiamo con una domanda classica: qual è la genesi di Sergio?

Avevo in testa da un po’ di tempo che prima o poi avrei voluto scrivere qualcosa dove tutto fosse retto solo da un corpo, volevo inventare uno spettacolo dove non ci fosse nient’altro che il corpo dell’attore e in cui attraverso la scrittura e il modo di stare in scena si facessero vedere oggetti e altre persone. E così credo di aver fatto con Sergio.
Diversamente da tutti i miei lavori finora, Bella bestia ma anche tutti gli spettacoli fatti con Gli Omini, qui la storia non mi riguarda, non c’è niente che conosca, non i personaggi, non le storie, tutto è completamente inventato. Niente ha a che fare con me o con spunti personali di vita traslati in scena. Non ho sostegni autobiografici di nessun tipo.

Tutto uno spettacolo a parlare con qualcuno che non si vede. Ma Sergio c’è?

Guarda, quando vado in scena io faccio un gioco ed è posizionare Sergio: nel mio mondo di interprete, nel tempo della replica Sergio è in un punto preciso, è il punto dove appoggio lo sguardo, è in una posizione precisa, l’intero spettacolo è un allenamento a osservare quel punto e a non andare mai oltre. Sergio c’è, è sempre alla mia sinistra, di lato, leggermente più avanti di dove sto io, e da lì non si muove mai. C’è nella mia testa, e anche in un copioncino segreto dove io mi sono appuntata le sue battute.

Vuoi dire che è un po’ come se noi assistessimo a una telefonata: sentiamo solo le tue battute e non quelle di chi ti risponde? Con la differenza che qui sei sempre tu a immaginarti anche le sue risposte e l’interlocutore non esiste.

Sì, è un po’ così. C’è un gioco delicato di equilibri tra i miei toni, le mie espressioni, i tempi che prendono le mie battute, intervallate da risposte immaginarie, che solo io seguo; è molto faticoso fare Sergio perché devo cercare di non distrarmi mai, di non uscire mai dalla relazione che ho con l’altro personaggio. Quando mi distraggo si vede subito e sono scoperta. Guai a perdere il filo della conversazione con Sergio.

Sergio, ph. Stefano Di Cecio

Quello che tu racconti è una serie di micro-racconti, che fanno pensare alla scrittura di Raymond Carver, in cui ci sono fatterelli, tranches de vie di basso cabotaggio, da un pranzo al ristorante con famiglia e triglie, all’ombrellone in spiaggia durante le vacanze. Cosa si cela dietro questi spezzoni di vite “piccole”?

Non volevo raccontare qualcosa in particolare, non doveva succedere niente, sono stata attentissima a che non succedesse niente, volevo che non ci fosse niente da risolvere, non un finale con il botto, volevo un equilibrio cromatico. Un beige chiaro è il colore dello spettacolo, la sfida è non uscire da quel colore, non far accadere niente. La mia volontà è lasciare sedimentare le parole in quel grande vuoto e fare in modo che sia lo spettatore a trovarci e a leggerci quello che vuole.

Ma così il lavoro lo facciamo noi! 

Eh certo, ma è proprio quello che volevo! Lo spettacolo finisce e il lavoro dello spettatore comincia. È tutto quello che non dico che spinge a sfrucugliare. Lo spettacolo è quello che rimane in mano allo spettatore, tolte le mie parole.
Anche quando vedo io uno spettacolo filtro le parole e ne traggo quello che serve a me.

Dunque la mancanza è una scelta precisa, racconti minimi in cui non c’è sviluppo, l’equilibrio dello spettacolo è tutto sulla stessa frequenza. Però nell’episodio del regalo da consegnare (la protagonista e Sergio non trovano a casa gli amici destinatari del regalo ma la loro figlia che non se li fila per niente, n.d.r.) c’è un salto, una sensazione di disagio e di inadeguatezza più forte, è un punto in salita, rispetto alla linea continua di equilibrio.

Questo episodio l’ho inserito alla fine, ci ho riflettuto tanto. Qui il testo cambia registro, è l’unico pezzo che apre una finestrella diversa dalle altre. Infatti è un pezzo che mi dà allo stomaco, dopo averlo recitato. È un colpo all’atmosfera generale. In questo episodio non c’è niente di scanzonato, ed è un frammento in cui devo prestare particolare attenzione a non ‘staccare’, né con lo sguardo né con il tono di voce.

Come hai lavorato alla scrittura di un testo così misurato e calibrato sui dettagli?

Questo testo è nato da un lavoro di lunga e abbondante improvvisazione con Tommaso Cheli, che ha collaborato alla drammaturgia: lui ha immaginato un intimo familiare, un mondo fatto di una relazione, i due potrebbero essere al parco su una panchina o in un sottotetto a parlare. È un uomo che racconta una visione femminile, Tommaso parla con le parole di una donna. Ha scritto tutti i blocchi di testo dal punto di vista di lei, tutti i suoi frammenti erano pensai con la testa di lei.
Il mio lavoro poi è stato togliere, montare, ripulire, aggiungere e da tutto il materiale che avevo ho fatto il mio vaso, plasmandolo.

Pensi che questa strada sarà quella dei tuoi prossimi spettacoli?

Non lo so, questo è un passaggio, non so se questo tipo di scrittura diventerà il mio marchio, so però che far lavorare lo spettatore anche dopo la fine dello spettacolo mi piace.

Sergio ti ha procurato anche la candidatura al Premio Ubu come miglior attrice, cosa hai pensato all’annuncio?

Ah ma chi se l’aspettava?! Quella sera non stavo nemmeno ascoltando la radio e stavo ricamando maglioni (l’attività di tricoteuse di Francesca Sarteanesi si sviluppa anche nel laboratorio Almeno nevicasse, in cui si ricamano frasi pensate ma mai dette su maglioni-manifesto n.d.r.), poi mi sono ricordata della premiazione e ho detto “fammi mettere gli Ubu alla radio” e un minuto dopo ho sentito il mio nome tra i candidati, è stato da sentirsi male, dire una sorpresa è poco! Pensavo “questa cosa non mi riguarderà mai nella vita” e invece mi son trovata tra i nominati. Tutto merito di Sergio.

SERGIO

di e con Francesca Sarteanesi
con la collaborazione drammaturgica di Tommaso Cheli
costumi Rebecca Ihle
produzione Kronoteatro e Gli Scarti, con il sostegno di Armunia residenze artistiche – Festival Inequilibrio

Teatro Pim Off, Milano | 10 febbraio 2022