ELENA SCOLARI | I racconti e i romanzi di molti autori classici, da Dostoevskij a Gogol, da Balzac a Melville (Bartleby lo scrivano), sono pieni di impiegati: a volte maniacali o con strane abitudini, a volte asociali, talvolta perfino pericolosi o semplicemente grigi. Impiegatizi, appunto. I funzionari sono tipi che si prestano a sorprendere, in letteratura.
E protagonista di Giusto, di e con Rosario Lisma (produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse), è proprio un impiegato dell’I.N.P.S., un meridionale emigrato al nord nell’operosa Milano. Giusto è anche il suo nome, per un esilarante errore all’anagrafe del suo paese, dove un altro impiegato statale svolge il suo lavoro con un bizzarro senso della precisione. Il nome Giusto è chiaramente simbolico (un po’ come avveniva con la Grace di Nicole Kidman nel film Dogville di Lars von Trier), è un uomo volenteroso, che si cura di portare a termine anche il lavoro dei colleghi meno solerti perché gli sembra giusto.

Rosario Lisma impersona una figura dai tratti recessivi – come i caratteri genetici che non hanno la meglio nella trasmissione ereditaria ma prima o poi si riscattano, emergendo a sorpresa – ed è persona attenta, sincera, poco competitiva, un timido impacciato, segretamente innamorato della figlia cicciona del principale. Quest’ultima si sposerà e ne verrà dato l’annuncio ufficiale durante una festa cui tutti i dipendenti sono invitati, anche Giusto, che si presenterà con un abito fuori luogo (uno smoking), provocando lo scherno di una teoria di personaggi meschini, ignoranti, privi di tatto e dediti solo a primeggiare.


Giusto racconta, con un senso dell’umorismo invidiabile, il suo perenne senso di inadeguatezza a una platea di spettatori che diventano da subito suoi amici, grazie ad aneddoti assai spiritosi e alla delicata ingenuità di qualcuno che confida senza timori le sue debolezze e mette l’uditorio di fronte ad atteggiamenti non encomiabili che forse sono stati, almeno una volta, adottati superficialmente anche da chi ascolta.
La scena è vuota, è “illustrata” dai disegni a colori di Gregorio Giannotta, proiettati su uno schermo di media misura, che fanno da contrappunto alla narrazione dando immagine di alcuni dei personaggi citati o dando il titolo ai capitoli di cui si compone il racconto. I disegni sono di tono caricaturale e francamente nulla aggiungono – anzi: limitano il ruolo creativo dello spettatore che avrebbe saputo immaginarseli bene da solo – alle vivide descrizioni che il protagonista disegna inquadrando perfettamente ruoli e caratteristiche.

Il vuoto dello spazio scenico, in questo caso, amplifica l’assenza di amici, di appoggio sociale che Giusto subisce in una città dove i cretini impazzano, nell’ingiustizia classica secondo cui fare il “ganassa” paga, cacciare balle è la norma e la rozzezza disonesta porta al successo.
Il nostro impiegato farà una figuraccia memorabile alla festa per la sua abbondante principessa mancata, la balena Sofia Gigliola, in seguito alla quale, in un maldestro tentativo di stordirsi definitivamente ingerendo un cocktail di medicinali scaduti, si sveglierà invece cambiato: vincente ma stronzo. Giusto è diventato un ottimo coglione milanese, imbecille ma accettato, cretino ma finalmente integrato.

Parallelamente alla vicenda personale di Giusto, perno principale, c’è l’aspetto meno “didattico” e più metaforico della storia: suoi coinquilini sono una ragazza che non c’è mai (ma quando c’è è sempre impegnata in intense sessioni erotiche) e Salvatore, un calabrone gigante che occupa le sue giornate dipingendo finestre sulle pareti, sbattendo poi contro i finti vetri nel tentativo di volare fuori. Un riferimento allo scarafaggio kafkiano? Probabilmente, ma Salvatore farà una fine decisamente migliore del povero Gregor Samsa. È questa una parte che resta purtroppo in secondo piano ma che rivela l’estro creativo di Lisma e che, con la poesia, costruisce un livello di riflessione meno spiccatamente pedagogico e dal respiro più ampio.

Lisma ha scritto il testo durante la fase acuta della pandemia in cui le immagini del cambiare, del poter uscire, l’illusione di saper imparare a distinguere ciò che è importante coltivare, sono state valvole che gli artisti hanno aperto ognuno a modo proprio, cercando la maniera di evadere con la mente.
Oltre al testo, che si può formalmente definire un apologo, Lisma firma anche la direzione dello spettacolo (aiuto regia Alessia Donadio), fa muovere molto bene il personaggio in scena e l’interpretazione lo rende non solo simpatico ma dotato di un’ironia non banale e capace di osservarsi di sguincio. Il senso ‘educativo’ del racconto resta però piuttosto marcato e si colloca sostanzialmente nel segno del riscatto degli sfigati. Per questo l’elemento surreale è indispensabile a spargere una polvere che dona brillantezza alla storia.
Ovviamente la pingue Sofia avrà modo di dire a Giusto che lo preferiva prima della metamorfosi dovuta alla pozione che ha fatto andare a male anche lui, e la bella sospensione del finale si aggancia al senso figurato del calabrone Salvatore: la finzione della favola forse potrà dare un nuovo destino a entrambi.

GIUSTO
di e con Rosario Lisma
aiuto regia Alessia Donadio
illustrazioni Gregorio Giannotta
costumi Daniela De Blasio
produzione Fondazione Luzzati Teatro della Tosse
Si ringrazia Comasia Palazzo per i movimenti coreografici

Teatro Elfo Puccini, Milano | 29 marzo 2022