SUSANNA PIETROSANTI | Una breve performance di una ventina di minuti. Un cerchio di sedie aggrappati alle quali, tentando di contrastare la vertigine, gli spettatori assistono alla metamorfosi. Fiocchi di cenere volano in aria, ondeggiano, e una sola attrice abita il luogo scenico, Silvia Calderoni, interprete caposaldo dei Motus, il  cui misterioso carisma basta per ricucire il tempo e per fare di passato e futuro un unico cerchio.

È You were nothing but wind, dei Motus, in scena a Cango Cantieri Goldonetta di Firenze per La Democrazia del corpo  il 29 e 30 aprile. È Ecuba, il giorno dopo del giorno dopo. Tutto è bruciato, la catastrofe è avvenuta: non c’è più senso, se mai ce ne fu uno, e non c’è più spazio per la logica, e per quella declinazione della logica che sono le parole. Polimestore nell’Ecuba euripidea aveva profetizzato che, dopo tutto, dopo l’onda del dolore insopportabile, la regina straziata si sarebbe trasformata in una cagna nera dagli occhi di fuoco. E questo avviene in scena. Il corpo della performer è l’assoluto protagonista. Invade l’orizzontalità, dapprima, poi ogni dimensione. Non si muta nell’altro di specie, lo contiene, lo fa emergere, in sussulti, in brividi, in salti febbrili che lo mostrano premere sotto la pelle. Mai un lavoro corporeo è stato così concettuale. Mai la categoria della caninità, così potente in Grecia, è risaltata con così tante sfaccettature. “Io che sono donna/cane”, dichiara Elena nell’Odissea, alludendo non ad una banale infedeltà e libertà sessuale, ma alle caratteristiche profondamente ibride delle figure arcaiche della mitologia greca. Elena, come Ecuba, contengono in sé la cagnità: la ferocia difensiva dei figli, la posizione metonimica con l’uomo, la capacità di tradimento, la lyssa, follia sanguinosa: quella che l’attrice incarna qui, spaventosa, emotiva, trascinante. Tutta la tragedia greca, del resto, testimonia una posizione arcaica in cui l’uomo e l’animale non hanno neppure bisogno di metamorfosizzarsi, perché sono l’uno nell’altro: dividono la stessa anima, e gli animali sono creature insidiose che rifiutano di accettare ruoli solo metaforici o solo ornamentali per dividere con l’umanità la mescolanza e il contatto /contagio.  Ecuba è la cagna nera con occhi di fuoco: la vediamo balzare, contorcersi, venire alla luce sotto i nostri occhi.

D’altra parte, come sostiene John Heath, “human speaks, other animals don’t”. Ecuba, la cagna, non parla; non parla parole, perlomeno. Nell’ambiente sonoro di infinita suggestione di cui è autore Demetrio Cecchitelli, gli indistinti confini tra uomo e animale sono il luogo deputato di una nuova lingua, che cessa di essere articolata in solide strutture grammaticali per estendersi non al qui, ma al dappertutto, all’inseguimento di un’espressione comune lungo la rete, la tela di ragno dei suoni, delle emozioni. Un linguaggio comunicativo comune all’uomo e agli altri viventi, un linguaggio ”deterritorializzato”, per usare un termine di Deleuze e Guattari, proprio dell’uomo in metamorfosi che, con il suo divenire animale, o riconoscersi tale, compie un viaggio immobile e infinito che è il più importante di tutti.
Motus compie proprio questo cammino, dal vertice di Tutto brucia in cui Ecuba di Silvia Calderoni era già tentata dal suo doppio animale e dal latrato irrefrenabile e da un sussultare metamorfico, e a cui già sottostavano intratesti fondamentali, come il lavoro dell’antropologo Eduardo Viveiros de Castro  (“l’idea che gli umani e gli animali condividano lo stato di persona è molto complicata: significa che sono internamente divisi e intrecciati”) , fino al Bestiaworkshop all’Accademia di Belle artidi Roma che accentrava il lavoro del gruppo su un altro testo fondamentale, Le parti pris des animaux di Jean Christophe Bailly, testo base del concetto sull’animale come altrove: non sappiamo nulla dell’animale se non che è altrove, ma verso di lui possiamo muoverci proprio con la nostra fisicità, toccarlo, fiutarlo, sentirlo, diventare altro con lui. Al culmine, certo provvisorio, di questo viaggio, Ecuba di Silvia Calderoni imposta un concetto visivo e performativo postumano, secondo i canoni di Felice Cimatti, il tentativo di pensare una umanità finalmente altra, finalmente animale, una vita che “concepisce la realtà come essa è”.  La distruzione, la rovina, la guerra sempre ritornante, spazzano via tutte le costruzioni, impostano una spirale di avvicinamento vertiginosa, che non possiamo mancare. Altrimenti, potrà esserci applicata, a tutta l’umanità, la citazione delle Troiane di Sartre, che Ecuba destina alla casa reale di Ilio: “o mia stirpe, vela gonfia di gloria che sbatte al sole, / il vento cade e tu sprofondi: / tu non eri che vento”.

 

YOU WERE NOTHING BUT WIND

Ideazione e regia Daniela Nicolò, Enrico Casagrande e Silvia Calderoni
Con Silvia Calderoni
Effetti sonori Demetrio Cecchitelli
Suono Enrico Casagrande
Luce Daniela Nicolò

Una produzione Motus, con il sostegno di MIC – Ministero della Cultura Emilia Romagna