ELENA SCOLARI | I divani in scena solitamente comunicano il contesto di un interno borghese,  ma quasi sempre indicano anche che quello che si racconterà non sarà per niente comodo. Sofà e poltrone raccolgono a volte confidenze ma più sovente rancori, odî, vendette non consumate, acrimonie sopite per anni sotto i cuscini o tra le pieghe dell’imbottitura o – perlomeno – segreti mantenuti per vite intere che il più delle volte finiscono per infrangere quelle stesse vite, incorniciate.
Non siamo lontani da ciò cui assistiamo in Vecchi tempi di Harold Pinter, messo in scena al Pacta Salone di Milano, per la regia di Claudio Morganti, in scena Maria Eugenia D’Aquino, Riccardo Magherini e Annig Raimondi.
Ciò che caratterizza questi divani e poltrone sono i mobili bar posti al loro fianco, ogni postazione ha il suo carrello, con bottiglie di vetro che contengono gin, whisky, o forse scotch, come si dice nei paesi anglosassoni. Siamo presumibilmente in un’isola inglese, a casa di una coppia matura, il marito viaggia molto e la moglie lo aspetta, godendosi (mica tanto, in realtà) il mirabile silenzio di questo luogo lontano dal rumore cittadino…

Il fatto intorno a cui ruota l’ingranaggio della vicenda è l’arrivo di una terza persona: Deeley e Kate aspettano Anna, una ventina d’anni prima le due donne abitavano insieme nella swinging London degli anni ’60. Non si sono più riviste da allora.
Non è chiaro se sia stata Anna a organizzare la visita ma comunque lei arriva in aereo della Sicilia, dove è andata ad abitare, avendo sposato un italiano.

ph. Emma Terenzio

A fondo scena c’è un pannello retroilluminato rettangolare, stretto e lungo, che si tinge di diversi colori, un orizzonte che muta con il passare del tempo e del colore della situazione.  È un elemento che ha uno stile estetico dissonante con tutto il resto: quello che c’è fuori dalla casa è un’altra cosa.
Anna è già lì, di spalle, mentre i due la aspettano. Potrebbe essere lì da sempre, perché il nocciolo di Vecchi tempi non sono tanto i vecchi tempi in quanto tali – chiaramente un pretesto – ma il dubbio che man mano si instilla nello spettatore sulla natura dei tre personaggi. Le ipotesi sono varie, nessuna risolutiva: Deeley, Anna e Kate potrebbero non esistere, essere tutti proiezioni, ognuno di un altro se stesso, oppure addirittura di noi; oppure ancora potrebbero essere aspetti diversi di una sola persona.
Raccontano ricordi di gioventù, ognuno con prospettive e sentimenti diversi, in un gioco alla Rashomon (film di Akira Kurosawa del 1950) in cui è impossibile scoprire chi mente, emergono brandelli di circostanze che ognuno deforma secondo il proprio sguardo. La memoria non è una scienza esatta, tutti abbiamo sperimentato come lo stesso episodio possa essere raccontato in modi diversi dalle persone che l’hanno vissuto, perché la memoria plasma, modella, romanza i ricordi. Inconsapevolmente.

ph. Emma Terenzio

Se però le àncore dei vecchi tempi che pensiamo di aver condiviso saltano perché veniamo a conoscenza di particolari essenziali fino ad allora taciuti, legami e rapporti precedenti a noi, che hanno escluso la nostra presenza e che quindi – non appena espressi – creano invece, d’improvviso, un pezzo di passato che prima non avevamo, eh beh, allora è un bel pasticcio. Di colpo può succedere che il marito sembri un estraneo, che l’amica intima dimostri di non aver mai capito niente di noi.
Beviamoci su, dicono i protagonisti di Pinter. Dicono e bevono, bevono e dicono, di continuo, sommessamente, ogni sorso annebbia un po’ di più la realtà (o quella che ci viene spacciata per tale), il tintinnio del ghiaccio nel tumbler di Deeley suona come un campanello che segnala le incongruenze, lo svelamento di informazioni nascoste, lo zoppicare di un sistema di convinzioni che non è più così nitido.
(E un bicchiere è anche un ottimo modo di tenere le mani occupate).

ph. Emma Terenzio

Il trio però non è davvero a disagio, la regia di Morganti li mette su un piano comune, nonostante i disvelamenti a sorpresa, e li fa muovere suggerendo una zona sospesa che rimarrà il loro terreno, che anzi si nutrirà di dubbi e sospetti, proprio come se il cielo sopra quell’isola inglese non potesse mai diventare davvero limpido.
Maria Eugenia D’Aquino/Kate è ancora la ragazza svagata che fu, o almeno così è come la descrivono gli altri due, e mantiene un’espressione tra il sognante e il disincantato che la rende meno “terrena” di Annig Raimondi/Anna che, seppur minuta, si insinua in maniera tangibile, sta nello spazio sospeso che Pinter ha creato e che Morganti ha disegnato in maniera impalpabile, con un carattere che mostra la forza di “gravità” della sua presenza, lei è il perno inclinato che incrina le sicurezze ma che consente un equilibrio nuovo, molti equilibri nuovi; Riccardo Magherini interpreta un Deeley ambiguo e un poco irritante, proverà posizioni differenti nei nuovi sfondi costruiti da Anna, ma tutti e tre rimarranno sospesi.

Nir Lagziel (costumi) veste la coppia in normali abiti contemporanei, mentre fa indossa re ad Anna un abito nero di velluto ricamato, un po’ fuori tempo, scarpe che sembrano troppo grandi per lei, come a renderla, anche visivamente, l’elemento terzo che per primo sposterà le lancette dell’orologio drammaturgico. Le luci di Fulvio Michelazzi, spesso tagli che filtrano da un esterno soleggiato, illuminano lateralmente gli attori, come laterale è lo sguardo che l’autore e il regista ci suggeriscono di tenere su di loro.

Con Vecchi tempi Pinter scrive un testo (non eccelso) che vuole ragionare sull’impossibilità di una memoria collettiva, sull’illusione che i nostri ricordi stiano in intersezioni comuni ai ricordi degli altri. La versione di Morganti però, grazie anche a un uso delle pause estremamente funzionale alla rarefazione dell’atmosfera, mette l’accento su qualcosa di più inquietante ancora: possiamo fidarci del prossimo se il terreno comune si rivela solo una credenza consolatoria per permettere la convivenza?
Molto della vita si basa su convenzioni, stabilite secondo percezioni condivise e che regolano un organismo sociale complesso: cosa succede se scopriamo che quelle percezioni non sono più condivise?
Vecchi tempi di PACTA ci ricorda che anche il teatro è un’illusione, che gli attori la abitano, seduti sul divano, sorseggiando un drink. E poi un altro. E poi un altro.

VECCHI TEMPI
di Harold Pinter
nuova traduzione Alessandra Serra
regia Claudio Morganti
con Maria Eugenia D’Aquino, Riccardo Magherini, Annig Raimondi
spazio scenico e luci Fulvio Michelazzi
costumi Nir Lagziel
assistenti regia Livia Castiglioni, Lorena Nocera
tecnico costruttore Eliel Ferreira de Sousa
produzione PACTA . dei Teatri

Pacta Salone, Milano | 3 maggio 2022