SARA PERNIOLA | Cosa succede quando nello studio di un luminare della psicoterapia si incontra un gruppo di pazienti che soffre di disturbi ossessivi compulsivi? Per di più il dottor Palomero ha dato appuntamento a tutti alla stessa ora ma non si presenterà a causa del suo ritardo per un convegno a Londra, e costringerà così tutti gli “strambi” a conoscersi. Questa la trama del film Toc Toc (2017) del regista spagnolo Vicente Villanueva e riadattato in modo divertente e appropriato, per il palcoscenico, da Officine Guitti, scuola di recitazione di Bologna diretta da Francesca Pierantoni che propone laboratori teatrali che coniugano l’amore per la didattica e la rappresentazione artistica. 

Ma, dicevamo…: cosa succede? Accade che in quella stanza le ossessioni e le compulsioni dei pazienti, emergendo, insegnano molte cose, tra cui la consapevolezza che la conoscenza della realtà esterna è parziale e imperfetta, a causa della percezione umana che è limitata per tutti, e può fallire. Il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) è infatti caratterizzato da pensieri, immagini o impulsi ricorrenti, i quali innescano sensazioni disturbanti che “obbligano” chi ne soffre ad attuare azioni ripetitive, materiali o mentali, per tranquillizzarsi e riuscire a stare al mondo. 

Ed è così che alcune settimane fa a Bologna, sul palcoscenico del Tag – Teatro a Granarolo prima, e del Circolo Montanari poi, gli attori non professionisti della compagnia hanno riprodotto gli stereotipi dei malati, in uno spettacolo che presenta una struttura drammaturgica che ha unità di tempo e di luogo, iniziando e chiudendosi nell’arco di un pomeriggio in un lussuoso studio medico. I performers mettono chi guarda di fronte ad un gruppo che racconta, e nel farlo presentano materiali disparati: frammenti di vita quotidiana, pensieri e ricostruzioni di essi, memorie personali, comportamenti dettati dal momento.

ph. Marco Cavedoni

Man mano che i pazienti arrivano, si delineano i disturbi che affliggono ciascuno.
C’è Anna Maria – interpretata da Elisabetta Vicino – profondamente religiosa e vittima di una disturbante mania di controllo, che le fa ripetere serialmente azioni, come il ricontrollare se ha perso le chiavi, se ha chiuso il gas e il rubinetto prima di uscire di casa, se ha fatto il segno della croce; Bianca (Stefania Felizzi), fan assoluta del bianco immacolato e della pulizia (perfettamente inserita nell’epoca del Covid-19) che non fa altro che lavarsi continuamente le mani e non toccare oggetti potenzialmente pieni di germi; Emilio (Giovanni Cozza) ossessionato dal calcolo aritmetico, rendendo quest’ultimo la sua descrizione alternativa della realtà. Cristian Alberto Saetta è poi Federico, affetto dalla sindrome di Tourette, incapace di controllare il turpiloquio e divenendo così un ventriloquo sessista nella patologia, ma quasi cavalleresco per la sua personalità; Paola Boschirotto è, invece, Lili, colpita da un disturbo che la costringe a ripetere continuamente le stesse frasi o le ultime sillabe delle parole pronunciate dagli altri, istituendo una dialettica tutta personale che ondeggia tra realismo e nominalismo. E ancora, in quella sala d’attesa c’è anche Otto (Davide Rossi), il cui nome palindromo rivela la sua ossessione per la simmetria assoluta: ed è per questo che si muove meticolosamente sul pavimento per non calpestare le righe delle piastrelle che lo rivestono, attuando un sistema operativo che adotta – come tutti – per sopravvivenza e comodità. 

La formazione del gruppo, poi, la sua intesa e il suo affiatamento – tanto nelle dinamiche interpersonali quanto nel lavoro creativo che si formano in quella stanza/palcoscenico – è coordinato dalla segretaria dell’attesissimo dottor Palomero, interpretata da Serena Beghelli. La sinergia generata costituisce un serbatoio di risorse a cui attingere sia per i bisogni e i desideri del singolo, sia per i processi e la vita della combriccola, nonché per le trasformazioni nella loro vita sociale quotidiana. I pazienti, infatti, si ritrovano nel bel mezzo di una terapia di gruppo spassosa e salvifica, la quale si basa tanto sulla comunicazione verbale quanto su quella non verbale: gesti, mimica facciale, postura e sguardo, vocalizzazioni, accessori e comportamenti, sono infatti stimolati per permettere una maggiore percezione di se stessi e degli altri. Non c’è più, dunque, un guardarsi convenzionale, ma scoperta dell’altro; un incontro che stabilisce un’intesa profonda ed affettiva, a coppie o in gruppo, fino ad arrivare a dei timidi contatti fisici. 

ph. Marco CavedoniL’impostazione della scena è frontale e il palcoscenico simula la sala d’attesa dello psicologo clinico: le sedie grazie alle quali gli attori si distribuiscono nello spazio, chi in piedi e chi seduto, chi correndo avanti e indietro dalla toilette o dalle scale, contandole compulsivamente, formano un semicerchio. Sulla destra c’è la scrivania della segretaria su cui è appoggiato tutto ciò che non può mancare in uno studio medico: un cartello recante la dicitura “Studio Dr. Palomero”, un pc e un portapenne. Infine, un appendiabiti sullo sfondo, il cartello convenzionale indicante i servizi igienici e dei giornali da compagnia completano la scenografia, essenziale e curata.
Per quanto lo spettacolo si nutra di stereotipi, allontanandoci e avvicinandoci al contempo all’immagine del malato rappresentato – mentre ci si sbellica dalle risate tra una parolaccia urlata e il ricordo di un’esperienza comune vissuta – una domanda sorge spontanea: siamo davvero tutti esenti e distanti dall’intrusione di normali pensieri occasionali che, alle volte, si trasformano in ossessioni un po’ patologiche? L’esperimento sociale – brillante e godibilissimo sia per i pazienti/performers che per il pubblico – si concluderà con la rivelazione dell’improvvisata comitiva quale microcosmo familiare: un insieme di persone a cui ci si può affidare con fiducia, un gruppo di amici onesti, che condivide successi e fallimenti, emozioni e fatiche. Il colpo di scena finale? Di certo non mancherà. 

ph. Marco CavedoniQuesto microcosmo ci riguarda. Pensiamo, ad esempio, a costrutti come la responsabilità ipertrofica, la sensibilità morale e il perfezionismo di cui in tanti siamo vittime: ci pungolano, ci sollecitano perché siamo provocati da una realtà mai neutrale, intrisa di pregiudizi e repressioni, talvolta gretta e oscurantista, talvolta ansiosa di un’emancipazione ancora lontana.
Considerare, infatti, la fallibilità del pensiero umano che può distorcere la verità e crearne una che è frutto del pensiero dell’osservatore rende fragili, ma anche potenti perché onesti e consapevoli. E in quella scala di intenti che non riusciamo sempre a realizzare a causa del proprio essere disfunzionali è bello essere pronti a raccogliere una sfida giocata sul campo della vulnerabilità che ci inerisce fino alla radice dei capelli.

TOC TOC 

una commedia di L. Baffie
regia di Francesca Pierantoni
aiuto regia T. Moisescu
con Cristian Alberto Saetta, Giovanni Cozza, Serena Beghelli, Stefania Felizzi, Elisabetta Vicino, Paola Boschirotto, Davide Rossi
produzione Officine Guitti

Tag-Teatro a Granarolo, Circolo Montanari