GILDA TENTORIO | Il regista Theodoros Terzopoulos, greco di nascita ma nomade e cosmopolita, è apprezzato a livello internazionale. Finalmente anche in Italia il suo nome comincia a essere conosciuto e la scorsa settimana è stato per alcuni giorni ospite al Piccolo Teatro di Milano. Insieme ad Andrea Porcheddu, curatore del libro Il respiro di Dioniso (2020), e con Camilla Lietti della rivista Stratagemmi. Prospettive Teatrali, ho curato il numero monografico a lui dedicato e ho potuto dialogare con il Maestro e con gli attori che da anni prestano il corpo alla straordinaria potenza espressiva del suo metodo.

Cresciuto all’ombra del monte Olimpo e nutrito alla scuola di Heiner Müller, Terzopoulos inaugura l’avventura del suo Teatro Attis a Delfi, l’ombelico del mondo dove Apollo e Dioniso si dividevano il terreno sacro. A cominciare dalle Baccanti delfiche del 1986, uno spettacolo-cult, le sue regie teatrali di drammi antichi hanno ormai fatto scuola. Ma il Maestro mette mano anche a testi moderni diventando egli stesso drammaturgo, e la cifra della sua visione è sempre riconoscibile.

Theodoros Terzopoulos

Il metodo Terzopoulos porta gli attori a uno scandaglio vertiginoso dentro di sé, per riscoprire il proprio sé-altro e “animale” che la società e le convenzioni imprigionano e anestetizzano. Non si tratta di uno sprofondamento verticale nell’inconscio né di una ricerca connotata di autobiografismo: anche questi sono fardelli e sovrastrutture ideologiche che vanno scardinate. Terzopoulos spoglia il sé di ogni orpello per mettere a nudo il corpo, indiscusso protagonista dei suoi lavori. Movimenti convulsi o di una lentezza sfibrante, membra agili e palpitanti in un’ossessione ripetitiva, una ritualità arcaica del corpo coltivata da un allenamento costante al superamento del limite. Non è l’estasi come ottundimento dei sensi ma una condensazione dell’essenza e un ampliamento dell’essere.
Il corpo insomma si fa linguaggio, mostra potenzialità nuove, è veicolo di un’energia primordiale che trasmette il senso più profondo del rito. Perché tutto avviene all’insegna di Dioniso, dio della metamorfosi (quella necessaria del nostro io, piegato dalle convenzioni e dall’utilitarismo consumistico), dio della natura, ancestrale, serafico e inquietante.

A Milano Terzopoulos ha portato due spettacoli. è un saggio del suo metodo (a livello fisico e vocale), applicato su un testo della poetessa e filosofa Ethel Adnan, per riflettere sul dolore e sulla perdita. Allestito nel piccolo spazio della Scatola Magica (Teatro Strehler) per un ristretto numero di spettatori, ha visto in breve il sold out.

Mi riferirò qui invece a Nora, andato in scena al Teatro Grassi il 21 e 22 maggio. La sfida era assai interessante. Il teatro di Terzopoulos è nemico del realismo, come procede quindi nella sua rilettura di Casa di bambola di Ibsen? Anzitutto, forse proprio perché il tessuto originale è noto, l’impressione è stata di maggiore immediatezza anche per un pubblico che non conosce il linguaggio del regista greco. Eppure la portata di novità e la cifra della riscrittura è ben riconoscibile, accolta da un pubblico milanese entusiasta: dieci minuti abbondanti di applausi!

L’atmosfera è quasi onirica e astratta, come se fossimo nella mente di Nora. Terzopoulos procede alla scarnificazione del dramma di Ibsen: come ha spiegato, nel leggere un testo egli si concentra su un nucleo, un “attimo”, e intorno a questo lavora in profondità. La vicenda è quindi ridotta a un triangolo: Nora, il marito Torvalt e l’avvocato Krogstad.

Un critico britannico ha parlato per questo spettacolo di “minimalismo rituale” e in effetti siamo attirati verso un dramma che si fa tragedia e percorso rituale. Nessun elemento realistico nell’ambientazione ma solo una scenografia di quattordici pannelli stretti e lunghi, girevoli, che nella scena iniziale, scandita dal tempo dell’attesa (il ticchettio di un vecchio orologio), sono allineati e creano una superficie piana e bianca. Si tratta della vita linda e apparentemente serena di Nora (una superlativa Sofia Hill): simile a un pupazzo a molla, fa il suo ingresso in maniera grottesca ed esordisce elencando in una lista vertiginosa i motivi della propria felicità, un benessere fatto di oggetti materiali (scarpette, guanti, mollette, shampoo, creme, fiale di botox…).
E volutamente questo accumulo inesausto proiettato all’infinito scorre in inglese, la lingua del capitalismo.

ph.Katerina Tzinkotzidou

Ma i pannelli bianchi rivelano ben presto una seconda faccia, di colore nero. Prima girano lentamente su se stessi a indicare il rapporto dentro/fuori, cioè la casa e la società, poi sempre più convulsi, e da qui emergono mani, braccia, gambe di corpi in un certo senso mutilati. Bianco e nero, luci e ombre di una vita borghese che deve mostrarsi perfetta all’esterno, imbalsamata dalle convenzioni sociali: curato anche esteticamente risulta ad esempio il contrasto fra il dilemma interiore e il valzer di Strauss “Sul bel Danubio blu”, accompagnato dalle giravolte sempre più ossessive dei pannelli (cfr. trailer).

ph. Johanna Weber

Nora e il marito non si incontrano mai, divisi dall’incomunicabilità di due mondi contigui ma inattingibili, con inquietanti allusioni alla violenza, psicologica e non solo, allusa dalle mani rapaci e autoritarie di lui. Torvalt (Antonis Myriagkos) non riuscirà mai a superare il pannello che lo separa da Nora ed è geniale la scena in cui i due ballano, con giravolte comprese, ma sempre aderenti ognuno al proprio pannello. Torvalt ama Nora di un amore egoistico: lei è la sua passerottina, scoiattolino, topolino, canarinuccio, una tenera bestiolina addomesticata da esibire e da manovrare. La casa è quindi una gabbia asfissiante.

ph.Johanna Weber

Terzopoulos però non è interessato alla denuncia della violenza (anche se ammette che lo spettacolo, nato nel 2019, ha mutato forma dopo la pandemia, quando le porte delle nostre case si sono chiuse e i microcosmi domestici si sono trasformati anche in piccoli inferni). “La questione è ontologica”, ha spiegato. Nora è il pretesto per riflettere sul nostro io imprigionato e schiacciato dalle convenzioni, che lotta per rivelarsi. E questo contrasto è reso visibile dal corpo di Nora, scissa fra due registri vocali che dilagano anche in gestualità antitetiche.
I vezzeggiativi mielosi secondo il gioco infantile di Torvalt si accompagnano a movimenti leziosi e aggraziati; ma quando è sola, Nora diventa corpo terrorizzato, che striscia, crolla, palpita, mugghia in una lotta faticosa: dal diaframma parte una voce rauca, un ruggito che è l’anima dell’autentico, il vero sé di Nora che urge e vuole uscire.

Una figura (Tassos Dimas) ride o commenta in forma surreale con battute stranianti: “Miracle!”, oppure “Infernum continuum”, o ancora “Che caldo!”, quasi fosse il personaggio del Coro. E in effetti il tessuto del dramma realistico viene teso fino a diventare tragedia. A tratti questa Nora ricorda la potenza ancestrale di Medea, a volte invece una Antigone che urla la sua rivolta ma è sepolta viva. Negli istanti magici in cui è il corpo a “parlare” in scena, si ritrova la cifra di Terzopoulos, che si rivela maestro anche in questa sua particolare riscrittura del dramma ibseniano.

Il finale è un colpo di genio. Nora annuncia la sua partenza, dovrebbe essere vincitrice: ha ritrovato il respiro dell’autenticità che rischiava di essere soffocata. È avvolta in un ampio abito nero, un’impalcatura fitta di veli e volants stretti intorno al suo nuovo “io”. Il vestito è il suo bozzolo: Nora scompare invece “divorata” dalle sue ampie pieghe, striscia, si divincola.
Non è un approdo consolatorio e di liberazione. Dove andrà Nora? Ora che ha preso coscienza di sé, si spalanca l’abisso dell’ignoto. Forse sceglierà una nuova vita, forse va diretta alla morte o in un’altra dimensione ma il passo è stato compiuto: la scoperta del sé è dolorosa ma necessaria. Il resto è silenzio.
Ciò che importa a Terzopoulos è mostrare la lotta, il contrasto, la tragedia appunto dell’esistenza. Ed ecco che il dramma scandinavo si colora di accenti profondamente greci e universali.

NORA
da Henrik Ibsen
traduzione, adattamento, regia e scene Theodoros Terzopoulos

con Sofia Hill, Tassos Dimas, Antonis Myriagkos
costumi Yorgos Eleftheriades
luci Theodoros Terzopoulos, Konstantinos Bethanis
costruzione scenografia Charalampos Terzopoulos
testo italiano dei sovratitoli a cura di Prescott Studio
produzione Attis Theatre (Atene)

Prima nazionale  – Festival Presente Indicativo

Teatro Grassi, Milano
21 maggio 2022