ELENA SCOLARI | Nei drammi di Čechov ci si ritrova spesso nelle tenute di campagna della borghesia russa una volta benestante e poi quasi sempre in decadenza, i personaggi appaiono scioperati, sembrano girare a vuoto intorno a vite che hanno perso il centro e in cui si muovono lenti, sconfortati, perennemente alla ricerca di qualcosa – o qualcuno – che li scuota e che torni a offrire motivo di nuovo impulso e cambiamento.
Così è anche in Zio Vanja (pubblicato nel 1898): siamo nella proprietà del professor Serebrijakov, è estate e si combatte con il caldo e le zanzare, l’illustre (e anziano) scienziato è appena tornato presso la tenuta con la sua giovanissima seconda moglie Elena. Il loro arrivo sconvolge orari e abitudini del resto della famiglia, una famiglia ‘allargata’ composta da Vanja (Vojnickij), sua nipote Sonja e sua madre Maria, la vecchia balia Marina, l’ex proprietario terriero Telegin ora in miseria e il dottor Astrov, uno di quei personaggi che non si capisce bene come mai frequenti così sovente la casa, come succede per i numerosi militari che Čechov fa gravitare intorno alle magioni delle sue opere, i quali non hanno altra occupazione che flirtare con le donne e discutere vacuamente con gli uomini, sempre lontani dai loro inutili accampamenti.

Zio Vanja – un’indagine sulla ferocia, l’allestimento dell’opera diretto da Simona Gonella (produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Teatro Metastasio di Prato) sceglie di collocare l’azione in un ambiente (scene curate da Federico Biancalani) privo di riferimenti campestri, nessun elemento rimanda agli spazi esterni nell’idea che un luogo chiuso rappresenti l’atmosfera claustrofobica in cui si consuma l’esistenza dei personaggi, piegati su loro stessi, egoisticamente concentrati sulle proprie insoddisfazioni e senza prospettive di apertura. Un grande pannello/muro rosso chiude il fondo scena e si riflette in un tappeto anch’esso rosso che copre il pavimento del palco. Tutti sono chiusi in una scatola rossa, colore della rabbia e della violenza ma anche della vergogna, forse per l’incapacità di darsi una via d’uscita che implichi delle scelte e la volontà di abbandonare la routine che finirà per soverchiare le singolarità di ognuno.

Simona Gonella dichiara di voler porre l’accento sulla ferocia reciproca che i personaggi si scambiano (come detto nel sottotitolo), mette in scena un catalogo di infelicità umane e le mostra come dentro a un acquario o meglio un diorama da museo di storia naturale, in cui la vita è solo riprodotta ma non è davvero vissuta.
Più che ferocia circola una cieca indifferenza verso l’altro, ognuno è operosamente indaffarato nella frustrazione sua e non avverte, non ha tempo per avvertire quella del prossimo.
Tutti i personaggi sono sempre in scena, su sgabelli ai lati quando non fanno parte dell’azione. Stefano Braschi, il professore, è perlopiù seduto di spalle su una poltrona che ricorda quelle dei dentisti o dei barbieri, è infatti un ‘paziente’ malato di podagra, appare il meno preoccupato, in fondo, forse l’età lo rende un poco rassegnato e pago di una vita di successo, si alza soprattutto per far arrabbiare gli altri; la Sonja di Stefania Medri è premurosa, innamorata non corrisposta di Astrov, reprime la rabbia e sopporta, sopporta, cacciando giù un’acquiescenza rabbiosa; Marco Cacciola è invece un medico dall’aspetto militaresco che indossa anfibi aggressivi, è spigoloso, beve molta vodka, è sempre pronto all’attacco e insidia esplicitamente la bella Elena che Stefanie Bruckner interpreta con decisione e senza mai essere melliflua, quasi seducesse suo malgrado. Anche Vanja (Woody Neri) se ne invaghisce e maledice l’età che gli impedisce di sperare in un futuro con lei (ha ormai 47 anni…), Neri mette la giusta dose di inadeguatezza in un uomo frustrato, spesso smarrito,  che ha dedicato anni a mantenere in piedi la proprietà per riscattarla dai debiti e non si capacita di come una donna giovane e bella possa sprecare i suoi anni migliori con un uomo vecchio, ne fa una questione morale.

Ph Luca Del Pia

E questo è uno dei punti centrali del dramma: Neri dà corpo a ciò che Čechov riteneva essenziale, in questa storia: si aggira senza bussola sul palco, scalzo, bretelle rosse sopra a una camicia bianca, mantiene una certa scanzonatura, non lo prenderemmo sul serio se non fosse l’unico che sente ancora pulsare la forza dei princìpi: il lavoro, l’onestà, la fedeltà alla famiglia e la sincera convinzione che la vita necessiti di slancio e coraggio. Ne è talmente convinto che arriverà al – grottesco – tentativo di uccidere il professore, ingrato e indifferente al destino suo, della madre e di Sonja. Gli spara, due volte, ma due volte lo manca, non gli riesce nemmeno questo gesto spettacolare, che gli lascerà soltanto vergogna.

L’effetto diorama è amplificato da una idea registica efficace (sebbene non inesplorata): Gonella introduce nella drammaturgia alcune delle note di regia che Stanislavskij scrisse durante il suo allestimento dell’opera cechoviana e le affida – con coerenza di senso – ad Anna Coppola, distaccata e ironica, che in quanto balia è anche la persona che tiene d’occhio la situazione e che osserva queste creature come se potesse prevedere le loro mosse; si crea così uno scarto tra le didascalie – Sonja si siede, si volta, Vanja posa il bicchiere sul tavolo, ecc. – e ciò che lo spettatore vede, non c’è simmetria tra gesto e descrizione.


I personaggi sono “rappresentati”, nonostante dicano in continuazione della loro infelicità, i sentimenti sono mostrati con una fissità che li rende modelli, si ha l’impressione che tutti sappiano già come ognuno di loro andrà a finire, non si percepisce una relazione dinamica che si costruisca nel dipanarsi dell’intreccio. È tutto già deciso. E questo priva lo spettatore della facoltà di immedesimarsi in personaggi che soffrono un malcontento esistenziale dal quale non sanno come uscire.
E qui sta il secondo punto nodale di questo Zio Vanja: l’ambientazione chiusa costruisce un dramma psicologico (centrato più che sulla spietatezza, sulla noncuranza per gli altri) e nega che esista una connessione tra il contesto della immensa e sconfinata campagna russa e lo stato d’animo dei personaggi. La lettura in interni cancella l’influenza che gli spazi piatti, periferici, immersi in una natura che è da curare, coltivare, tenere in ordine, esercita su uomini e donne che si sentono anch’essi periferici rispetto a una vita che sta sempre altrove: a Mosca, in città, in una carriera che non si è intrapresa, in una donna che si è allontanata.
Il dottore fa un discorso che segna proprio l’attenzione di Cêchov per il paesaggio. Mostra a una Elena distratta i suoi disegni e le racconta di come il territorio sia cambiato negli ultimi cento anni: sono state abbattute foreste, distrutti boschi e con essi i rifugi degli animali, gli uomini tagliano gli alberi per bruciarli nei camini perché “all’uomo pigro manca il buon senso di chinarsi ed estrarre dalla terra il combustibile. Bisogna essere un barbaro selvaggio per bruciare nella propria stufa questa bellezza e distruggere quello che non siamo stati in grado di creare“. (Piuttosto sconcertante leggerlo oggi). Nel frattempo Vanja/Neri finge di disegnare un paesaggio con le dita sul fondo rosso: il personaggio dice con il gesto che quel paesaggio lo vorrebbe vedere, accidenti!

Diciamo solo ora del povero Telegin (Donato Paternoster) personaggio modesto, trattato un po’ come un servo ammaestrato, qui ridicolizzato da sandali con calzini e un pesante problema di pronuncia che lo assimila a un uomo ‘difettoso’, Gonella gli regala però una azione molto bella: Telegin rimette in ordine i personaggi prima che tutto si sfaldi, li sposta come statuine, con fare attento, li colloca fisicamente sul palco nel tentativo – vano – di trovare loro una posizione.
Qualcuno partirà (ma in Čechov nessuno parte mai davvero), qualcuno rimarrà, si esauriranno gli scontri intorno al samovar. In fondo anche i litigi sono una forma di attenzione.

Nonostante queste intuizioni e alcuni momenti in cui (soprattutto quando interagiscono Braschi e Neri) si avverte una scossa sincera di vita, di rabbia e di invito alla passione vitale, l’impressione complessiva è di una quarta parete molto spessa che fa il paio con la scatola in cui sono serrati questi uomini e donne, giovani e vecchi: le loro vite di personaggio non sanno uscire da un impasse colloso e le loro difficoltà faticano a raggiungere la platea.
Čechov ha un che di impalpabile quando scrive dell’inconcludenza dei suoi personaggi, c’è uno spirito speciale nel modo in cui disegna fallimenti e avvitamenti sterili, sconclusionati ex possidenti alla prese con debiti, tradimenti, persone litigiose perché non realizzate. La regia sviscera i contrasti e non cerca il calore con cui l’autore accarezza anche le meschinità e le grettezze delle sue creature: nessuno è riamato dalla persona che ama, solo Čechov li ama tutti.

ZIO VANJA
un’indagine sulla ferocia

di Anton Čechov
regia e drammaturgia Simona Gonella
con  (in ordine cechoviano)
Stefano BraschiIl professore
Stefanie BrucknerElena
Stefania Medri Sonja
Anna CoppolaMaman, balia, note
Woody Neri Vanja
Marco Cacciola Il dottore
Donato PaternosterTelegin
spazio scenico Federico Biancalani
disegno luci Rossano Siragusano
costumi Anna Maria Gallo
ambienti sonori Donato Paternoster

produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Teatro Metastasio di Prato
Con il contributo di NEXT-Laboratorio delle Idee