GIAMBATTISTA MARCHETTO | “Mettendo in scena il corpo e sezionandolo visualmente con i suoi paradossi e le sue multiformi sfaccettature alla maniera di Nan Goldin, focalizzandosi con sguardo implacabile sulla solitudine, sulla relazione umana tra sessi nell’era digitale e in una società che sfugge a regolarizzazioni e controlli, esplorando i confini porosi tra reale e virtuale, indagando sugli effetti dell’amore, del gender, della femminilità, del desiderio, del suo conseguente annichilimento e dei sotterranei brutali giochi di potere, Samira Elagoz percorre un viaggio intimo e poetico, ma al tempo stesso ironico e perturbante, intorno ai clichés e alle questioni riguardanti non solo l’auto-rappresentazione nei media, i comportamenti del maschio nei suoi tentativi di seduzione in un rapporto di dominio e/o di sottomissione, ma anche dello strumento-corpo come campo di un’imprescindibile e necessaria sperimentazione artistica”. È questa la motivazione con cui i direttori della Biennale Teatro ricci/forte hanno scelto di assegnare a Samira Elagoz – oggi Sam, dopo un percorso che ha portato l’artista a identificarsi nel genere maschile – il Leone d’argento 2022 per il Teatro.

“Seek Bromance” di Samira Elagoz. Foto di Samira Elagoz

Sam, lei coinvolge sempre se stesso e il suo corpo nel processo di creazione. Cosa desidera raggiungere? È un’urgenza per lei?

In tutto il mio lavoro, la vita deve prima succedere, poi ne traggo qualcosa. Questo è anche il motivo per cui lavoro senza copione, ci deve essere un’imprevedibilità. Ho sempre deciso di collezionare eventi della vita reale, e di solito crearli nel processo di ricerca.
Quindi, penso che l’aspetto più importante del mio lavoro sia la mia presenza nelle scene: un véritesque nel quale osservare è anche essere osservato. Questo approccio abbatte i confini tra l’artista e il soggetto, tra regista e interprete, tra osservazione oggettiva e interpretazione soggettiva. La maggior parte dei miei lavori non sono una raccolta di ritratti, ma di interazioni tra me e i miei soggetti. Sono stato un compagno, un amante, un confidente. La fluidità e l’adattabilità della mia posizione è essenziale”.

Pensa che questo approccio possa rendere il suo lavoro meno “universale” o pensa contribuisca a creare più intimità?

Mentre il mio lavoro si occupa unicamente di esperienze personali, cerco sempre di editarle in modo tale che possano essere comprese da quante più persone possibile, specialmente da quelle che non cadono nel “demografico”. Il mio lavoro precedente “Cock, Cock. Who’s There?” era una storia molto personale sulla violenza sessuale che ho subito in passato. E uno degli obiettivi principali durante la creazione era fare un’opera sullo stupro che non attaccasse gli uomini, che potesse essere accettata e realmente ascoltata dagli uomini. Ora, con “Seek Bromance”, volevo realizzare un’opera sulla transness che possa essere vista anche dalle persone cis (non trans, ndr) riconoscendosi in essa. Quindi generalmente cerco di creare per un pubblico più ampio di quanto mio focus suggerisca.
C’è una citazione di Tarkovskij che mi piace molto: “Non cercare mai di trasmettere la tua idea al pubblico: è un compito ingrato e insensato. Mostra loro la vita, e troveranno dentro di sé i mezzi per valutarla e apprezzarla”.

“Seek Bromance” di Samira Elagoz. Foto di Samira Elagoz

Cosa è l’identità dal suo punto di vista? E la definizione di genere è elemento cruciale dell’identità?

Mi piace approcciare la nozione di identità come “design del sé”, come la scrittura di una sceneggiatura. Perché hai il controllo di quello che vuoi che sia il tuo io “autentico”. Ma mentre credo fermamente che la biologia non sia il destino, noi non possiamo sfuggire al fatto che siamo essenzialmente una miscela chimica. I nostri corpi, pensieri e il nostro sé sono quasi interamente schiavi dell’equilibrio che raggiungiamo. E se cambi la chimica, cambi la persona. La società ha creato l’idea di un corpo non intossicato, ma questa è finzione, siamo sempre squilibrati e non siamo mai neutrali.
Quindi per me l’identità è prima di tutto una creazione. Credo fermamente che l’identità non sia qualcosa che semplicemente esiste, o che semplicemente si “nasca così”, ma piuttosto ciascuno si costruisce. Quindi in quest’ottica posso vedere le persone trans come artisti della vita. C’è un aspetto intrinseco del dover improvvisare e inventare mentre ti evolvi.
Una parte importante della transizione è la transizione sociale. Ho compiuto la mia transizione durante i due anni di lockdown. E se sei solo in isolamento, ad assumere ormoni vestendo i pantaloni della tuta, quanto puoi effettivamente cambiare? Il riflesso di noi stessi che vediamo negli altri in-forma il nostro senso del sé a un livello molto più alto di quanto la gente si renda conto.
Un termine da cui sono attratto è “psicologicamente androgino”. Mi piace molto. Supera il mondo fisico del “presentare” e porta nel meta-mondo dell’ “essere”. Credo che quel termine descriva nella maniera più accurata il modo in cui mi vedo. O il concetto di “genere personalizzato”, che trovo molto più appropriato dell’opzione non binaria. Dà potere creativo alla persona: invece di dire “questo è proprio quello che sono”, dico “questo è il me che sto progettando di essere”.

Che tipo di messaggio punta a condividere con “Seek Bromance”?
Un tema ricorrente in tutti i miei lavori è la mascolinità e gli uomini. Per dieci anni ho girato praticamente solo uomini, cercando la mascolinità come un outsider, mentre ancora mi identificavo come donna. Il nuovo lavoro mi fa scoprire argomenti simili da un punto di vista vantaggioso, mentre mi identifico come un trans-maschile.
Nei miei lavori precedenti volevo analizzare la strana “coreografia” di maschi cis nel confronto con donne cis. Volevo esplorare cosa provocava la mia “femminilità” e perché. Volevo criticare i cliché attribuiti a quei ruoli di genere, al fine di mostrarne il costrutto.
In “Seek Bromance” l’attenzione è più sull’interazione tra femminilità e mascolinità, e quanto può essere difficile, anche da trans, allontanarsi dagli archetipi che sono costantemente indotti dalla società. E, naturalmente, dato che l’uso del testosterone è rappresentato in questo lavoro, solleva la domanda: in che misura gli ormoni hanno un ruolo negli spettacoli di genere?
Ho deciso di realizzare un’opera che dovevo vedere mentre lottavo con il mio genere. Volevo fare un’opera “trans” in cui non si tratta di educare le persone cis o di essere esempi positivi ma narrare una storia vera, nella quale i protagonisti trans sono complessi e travagliati, progressisti e ammirevoli, problematici e riconoscibili. Dove sono ribelli, amanti, creatori”.

Ha scritto: “Seek Bromance è una storia d’amore trans situata alla fine del mondo da qualche parte tra insta-realtà e distopia fantascientifica”, potrebbe spiegare questo concetto?

Molto del lavoro riguarda l’isolamento, la solitudine e la perdita di comunità, ma ci sono tante versioni di me e del mio collaboratore Cade. È presente la sensazione che fossimo vicini alla fine del mondo, come se fossimo le uniche due persone su un pianeta dove tutto il resto si è estinto, la popolazione spazzata via da qualche pestilenza. In questo spazio non potremmo essere contagiati dal mondo, ma solo tra noi. Sia Cade che io ci siamo filmati molto e, in una certa misura, viviamo la vita come se fosse un film. Tendo a considerarci come il nostro stesso caso di studio. Un po’ come un dipinto che commenta se stesso.

L’amore ferisce, dicono. Condivide questa idea?

Pensavo fosse un fatto ben assodato… Seriamente, gli studi di neuroimaging hanno dimostrato che le regioni del cervello coinvolte nell’elaborazione del dolore fisico si sovrappongono notevolmente a quelle legate all’angoscia sociale. La connessione è così forte che i tradizionali antidolorifici corporei sembrano in grado di alleviare le nostre ferite emotive.
Con “Seek Bromance”, che è una sorta di romanzo, ho sentito spesso dalle persone che è molto “comprensibile”. Questo è abbastanza interessante per me, perché, a essere onesti, Cade e io abbiamo insoliti retroscena che sono sicuro non sono così riconoscibili ai più. Ma fondamentalmente, l’angoscia è angoscia, di qualunque genere tu sia. Quindi, sebbene sia un’opera trans, sembra evocare qualcosa nelle persone cis. E se faccio in modo che anche solo alcuni membri del pubblico riconsiderino come si relazionano le persone trans, o anche il loro genere, sento di aver lavorato con successo.

Ironia o rabbia. Come li bilancia?

Suppongo che l’ironia, proprio come il sarcasmo, possa esprimere indirettamente aggressività, anche se richiede uno sforzo cognitivo maggiore. La mia mente di solito usa l’ironia come strumento per dissipare la frustrazione. Disperatamente aggrappato al “c’est la vie” di tutto. La rabbia è troppo comprensibile in questo mondo, e quindi sconveniente, dovremmo aspettarci di essere delusi ormai. È cinico, lo so, ma questo porta con sé una certa pace interiore.