RENZO FRANCABANDERA | Si è chiusa il 31 luglio Biennale Danza, 16. Festival Internazionale di Danza Contemporanea, svoltasi nell’ultima decade di luglio e per il secondo anno con la firma della direzione artistica di Wayne McGregor, il poco più che cinquantenne coreografo e regista britannico dallo sguardo vivo e dissacrante le cui creazioni sono ormai entrate a far parte del repertorio di compagnie di danza di tutto il mondo.
La direzione di McGregor ha continuato anche nell’edizione 2022 a giustapporre e combinare la tradizione e il nuovo, portando in laguna maestri solisti e compagnie internazionali.
L’esordio di Biennale è andato proprio in questa direzione, con il debutto affidato al codice consolidato di Saburo Teshigawara, cui ha fatto eco il giorno seguente la nuova verve di Trajel Harrell.

Courtesy La Biennale di Venezia © Andrea Avezzù

Il maestro e neo Leone d’Oro giapponese è, come noto, un artista totale, che pratica con ampiezza codici espressivi molto diversi, fra cui, oltre alla danza, anche la scultura, il disegno. Sono linguaggi il cui riverbero si ritrova in modo leggibile anche nella prima mondiale che ha regalato al programma di Biennale Danza 2022: la personale rivisitazione di un grande classico, Petroushka, il celebre balletto in quattro quadri composto da Stravinskij nel 1910 e rappresentato a Parigi l’anno successivo dei Balletti Russi di Diaghilev, con l’interpretazione di Nijinski e la coreografia di Fokine. Petruska è una rilettura del mito del burattino che cerca la propria identità, ma con differenze sostanziali rispetto al Pinocchio di Collodi, in cui forte, fra la figura di Geppetto e quella della Fata, si vede una rilettura psicanalitica della dinamica familiare.
Il burattino della tradizione russa è di proprietà di un Ciarlatano che si esibisce durante le feste di piazza del martedì grasso a San Pietroburgo: cerca una personalissima affermazione del proprio io come risposta al tentativo di annichilimento perpetrato da parte della società che alla fine, a differenza di Pinocchio, lo schiaccerà.
Teshigawara da subito rinuncia a tutti i personaggi ulteriori, preferendo una lettura espressionista, in soggettiva, sul burattino, deformato dalle smorfie della vita subita.

L’annichilimento è, fin dall’ampio quadro introduttivo, quello della società contemporanea. Il danzatore fantoccio, dentro un cono di luce fioca, si muove con frenesia come preso nelle agitazioni delle metropoli contemporanee, entra ed esce, rientra di taglio, sempre svelto, sempre di fretta, pupazzo in mano a questa forza invisibile che lo sospinge senza sosta. Sullo sfondo corre la città, strombazza, in corsa perenne. È lo stesso potere che tornerà nel finale, quello a cui l’individuo della società contemporanea soccombe inesorabile.
Nelle sequenze successive l’artista incarna il burattino-artista, schiacciato, messo con le spalle al muro ma, ciò nonostante, rimarrà se stesso compiendo il tragico ma catartico percorso della fiaba. Rimane viva e presente come essenza dello spettacolo la distruzione solo apparente del burattino, che al termine muore nella sua forma fino a quel punto nota, ma non nel sostrato sensibile, che infatti l’artista giapponese rivela poco prima del sipario, rimuovendo l’ampia maschera di silicone che lo aveva deformato fino a quel momento per restituire il volto vero e nascosto di Petruska-Teshigawara, estrema rivendicazione dell’arte come unica possibilità di una vita autonoma e libera.

Dentro questo conflitto c’è anche una parentesi significativa per l’amore, come nel mito: il pupazzo si innamora di una ballerina, qui una fantastica Rihoko Sato, ed è proprio a causa di ciò che poi verrà distrutto da una figura violenta, quella di Moro, che nell’allestimento di Teshigawara non c’è.
La ballerina, anche in questa coreografia non è solo simbolo di leggerezza e di grazia, ma il vero evento trasformativo, che permette alla vita burattinesca di Petruska di essere attraversata da una nuova luce: il trionfo beffardo del finale rompe lo schema della finzione della recita per restituire la realtà della vita.

L’apparente semplicità del segno del coreografo trova, nell’interpretazione propria e della sua compagna di arte e di vita, un’espressività quasi da cinema muto degli anni Trenta, che avvince la platea per nitore e purezza, esaltando ulteriormente il tema cruciale della sfasatura fra l’intenzione nei confronti della realtà e la realtà stessa, vero cruccio del burattino, grandezza e peculiarità di Petruska, ma a ben pensare di tutti gli spettacoli con cui ha preso il via la Biennale 2022. Il tributo della platea a fine spettacolo come pure alla consegna del Leone d’Oro, mostra quanto abbia seminato l’artista giapponese, quanto il binomio con la sua interprete feticcio abbia segnato il linguaggio in questi decenni di pratica. A testimonianza ulteriore dell’impegno nella trasmissione del codice, Teshigawara è stato anche in residenza a Venezia per collaborare con i partecipanti di Biennale College Danza a un evento site-specific all’Arsenale.

Diversissimo ma ugualmente centrato sul tema della sfasatura fra l’intenzione nei confronti della realtà e la realtà stessa è il Maggie the Cat dell’acclamato coreografo americano Trajel Harrell, le cui performance assomigliano più a installazioni animate che a vere e proprie coreografie, stilizzazioni di riflessioni sul del genere, su figure emarginate o esotiche, rilette attraverso forme di danza non canonizzate dal main stream istituzionale, come la club dance, gli spettacolini pop/trash e soprattutto il voguing.

Courtesy La Biennale di Venezia © Andrea Avezzù

Il nome dello spettacolo è ispirato al personaggio principale dell’opera teatrale di Tennessee Williams La gatta sul tetto che scotta, da cui Harrell prende spunto. Ed effettivamente il testo di Williams nella sua celebre trasposizione cinematografica subì proprio sul tema dell’identità di genere una censura molto forte: per non incappare nelle maglie del Codice Hays che proibiva anche la semplice menzione delle “perversioni sessuali”, tutta la tematica dell’omosessualità di Brick fu espunta. L’atleta, interpretato da Paul Newman nella pellicola, non riusciva a desiderare la focosa moglie (Liz Taylor) perché non si è mai ripreso dalla morte (per suicidio) di un compagno di squadra, Skipper, di cui era innamorato, senza però accettare di essere omosessuale, e annegando nell’alcol qualsivoglia barlume di consapevolezza. Il dramma prende vita nella casa di famiglia di lui nel Mississipi, dai genitori che vengono chiamati Big Daddy e Big Mama, giocando un po’ sui nomi che si davano agli schiavi nelle piantagioni.

Trajel Harrell aspetta il pubblico vestito con il grembiule da cucina, si presenta e presenta lo spettacolo, anzi, fa finta di sbagliarsi, presenta quindi tutti gli interpreti, e poi insieme a Perle Palombe va a vestirsi per prendere le sembianze dei padroni di casa, lui con un vestito a stampe floreali chiaramente ispirato agli abiti della cultura nera afro, lei in camicia a fantasia e calzoni.
Insieme occupano il proscenio, ai due lati del palco, cantano il loro riff ispirato a Felix the cat, il celebre cartoon americano, e si mettono in ascoltano visivo dei i nove ballerini per una azione che appare una performance aperta, e così la camminata del gatto si tuffa nella salsa iconica della fiction TV Pose e fra sfilate di modelle, abiti stravaganti, musica e presentatori che agiscono come sciamani urbani. Ma questa per certi versi grottesca celebrazione del mondo della moda non dura a lungo, lasciando il posto allo stile di danza emerso nella sottocultura queer di New York che è poi il marchio di fabbrica di Harrall.

Courtesy La Biennale di Venezia © Andrea Avezzù

Il momento individuale dei singoli interpreti resta intatto, ma si forma una polifonia umana, sociale che arriva ad esaltare la soggettività, oltre gli stereotipi di genere e di fisico. Lo spettacolo pare dialogare a distanza con la mostra fotografica di Indigo Lewin, la fotografa in residenza a Biennale Danza 21, che gioca sull’esaltazione del prosaico quotidiano, mostrando (in forma assai meno da passerella, ma ugualmente vera) i moderni rituali del danzatore e della danza, nella loro cruda vulnerabilità.
I ballerini di Harrell giocano a travestirsi, utilizzando gli elementi dell’arredamento di casa, come adolescenti: si vestono di cuscini, asciugamani, tende e copriletti, e sfilano su un tappeto sonoro vari che va dall’electro-trance, al free jazz, passando dalla spavalderia altezzosa, alle esibizioni da gattina, in un ora buffo ora elegante pavoneggiarsi. L’individuo appagato, forte, di una solidità che gli viene dall’essere fragilmente senza domande e senza pretese, pienamente appagato nell’essere quel che è e nell’avere quel che ha, e il cui scopo fondamentalmente è nel realizzarsi potendo giocare liberamente, in un esercizio voyeuristico.

A seconda che nello spettatore prevalga il senso di questa pienezza dell’identitario o il gioco che poi dopo un po’ si consuma, lo spettacolo può trovare accoglienza e letture assai diverse. Dalla variegata e internazionale platea del Piccolo Arsenale di Venezia, l’ovazione è stata grande, per questo debutto italiano di Harrell e del suo codice.

Un elemento quello della danza come gioco, che trova amplificazione massima nella performance in realtà virtuale ospitata nella Sala delle colonne di Ca’ Giustinian, sede della Biennale, proposta da Blanca Li, che ha riproposto il pluripremiato Le Bal de Paris alla Biennale, dopo aver vinto il Premio miglior esperienza V/R alla 78. Mostra internazionale d’arte cinematografica della Biennale di Venezia, lo scorso anno.
Mc Gregor ha ritenuto che riproporre questa creazione fruibile da una decina di spettatori per volta tutti bardati di un sofisticato computer capace di rendere leggibile gran parte del movimento umano, fosse un must, per la Biennale Danza 22: “un’opportunità per il nostro pubblico della danza, della nostra arte di partecipare a questa straordinaria e multiforme opera visionaria di sconfinata gioia”.
Il corpo interagisce con altri corpi, in un dialogo continuo tra fantasia e materia: siamo immersi in ambientazioni fantastiche, in un cartoon bellissimo, in cui abbiamo i volti di animali, e in cui assistiamo inerti al sopravvento della realtà virtuale sulla ragione. I nostri compagni di avventura si piegano quando sulle loro teste sta per arrivare una lampada, o guardano in basso quando vengono invitati a saltare sulla gondola, come se davvero possano cadere in acqua, come se non avessero visto, quando ci siamo vestiti dell’armamentario digitale, che eravamo in una stanza con un tappeto danza di sei metri per dieci e che lì saremmo rimasti.

Ma tant’è: dopo 20 minuti di visore, immersi in un cartoon fatto benissimo, coinvolti in qualche gioco in cui la realtà vera e la realtà finta si baciano, in cui tocchiamo un corpo sconosciuto, ci balliamo, ecco, dopo 20 minuti perdiamo la cognizione del reale. Dopo 40, quando togliamo il visore, il ritorno alla realtà è ancora più complesso e sconcertante. I muri di Ca’ Giustinian sono permeabili come quelli del video? Usciamo dalla performance in pieno effetto Martini, sconquassati sul pensiero del reale. di ritorno dal metaverso, dal mondo fantastico in cui tutto è possibile. Il ritorno ai confini fisici veri è pieno di interrogativi.

 

PETRUSHKA

regia e disegno luci Saburo Teshigawara
collaborazione artistica Rihoko Sato
costumi Saburo Teshigawara, Rihoko Sato
musiche a cura di Saburo Teshigawara
danzatori Saburo Teshigawara, Rihoko Sato
produzione KARAS
Anno / Durata 2022, 60′ (prima assoluta)
Inizialmente in scena nel giugno 2017 presso: KARAS APPARATUS (Tokyo, Japan)

 

MAGGIE THE CAT

regia, coreografia, costumi, scene, suono Trajal Harrell
scenografia Erik Flatmo, Trajal Harrell
disegno luci Stéfane Perraud
assistente alla regia Lennart Boyd Schürmann
drammaturgia Katinka Deecke
cast Trajal Harrell, Stephanie Amurao / Maria Ferreira Silva, Helan Boyd Auerbach, Vânia Doutel Vaz, Rob Fordeyn / Challenge Gambodete, Christopher Matthew, Nasheeka Nedsreal, Perle Palombe, Songhay Toldon, Ondrej Vidlar, Tiran Normanson
produzione Manchester International Festival

Fa parte di una trilogia, Porca miseria, commissionata da Manchester International Festival, Schauspielhaus Zürich, ONASSIS STEGI, Kampnagel (Hamburg), Holland Festival, the Barbican and Dance Umbrella, NYU Skirball, Berliner Festspiele, The Arts Centre a NYU Abu Dhabi
È in tournée con Causecélèbre, la compagnia europea di Trajal Harrell, artista residente alla Schauspielhaus Zürich
Causecélèbre ha sede in Belgio ed è amministrata da Lena Appel in collaborazione con Lies Martens

 

LE BAL DE PARIS

ideazione, libretto, regia e coreografia Blanca Li
musiche originali e direzione musicale Tao Gutierrez
direzione del design visuale Vincent Chazal
costume CHANEL
sviluppo della realtà virtuale BlackLight Studio
danzatori Luca Braccia, Melissa Cosseta
assistente coreografo Rafael Linares Torres
direttore IT Nicolas Huertas Ballester
stage management Romuald Vervin
direzione tecnica Jeremie Oler
aiutante di palco per il pubblico Elisabetta Vernier
produzione Blanca Li Dance Company (Film Addict – Calentito)
co-produzione BackLight Studio (France) Fabrique d’Images (Luxembourg) Actrio Studio (Germany) Chaillot – Théâtre national de la Danse (France) Teatros del Canal Madrid (Spain)
con il supporto e la partecipazione di Centre national du cinéma et de l’image animée – CNC (France); Film Fund Luxembourg; Epic MegaGrants (USA); Programme Europe Créative – MEDIA de l’Union Européenne Ville de Paris (France); Medienboard Berlin Brandenburg (Germany); DICRéAM HTC Vive (partner ufficiale per la realtà virtuale / official partner for VR)
partner esclusivo CHANEL

Si ringrazia Institut Français, Rencontres de Coproduction du Film, Francophone (Luxembourg), Festival NewImages (Paris, France), Festival International de Film de Genève, (Switzerland), VR Days (the Netherlands), Cannes XR (France), Kaleidoscope (USA), Centre Phi (Canada) l’intero team di CHANEL