RENZO FRANCABANDERA | Si è completato a Bologna il programma della XXVI edizione di Danza Urbana, un festival storico che presenta i protagonisti più interessanti della nuova danza d’autore (italiana e non) in contesti urbani, spesso in spazi aperti, cercandone una sovrascrittura di senso attraverso l’intervento degli artisti stessi.
Quello che oggi risulta un dato estetico acquisito, con sempre più frequenti ambientazioni nello spazio cittadino di performance e spettacoli dal vivo site specific, è stato invece un pensiero originario a suo modo pionieristico, quasi trent’anni fa, per la nascita di questo festival, non tanto nella forma, che era già stata accolta dalla cultura degli happening degli anni Settanta, quanto nel tentativo specifico del dialogo coreografico creativo e aperto.
L’obiettivo era quello di attraversare non solo i centri, i luoghi storici e d’arte, ma anche ambienti metropolitani e periferie spesso prive di connotati, per restituire – anche agli occhi di chi ne conosce le aspre geometrie – un’altro punto di vista.
Questa operazione si deve all’idea di Massimo Carosi e Luca Nava (rispettivamente Direttore Artistico e Direttore Organizzativo della manifestazione), insieme a un gruppo di studenti del corso di Storia della Danza di Eugenia Casini Ropa al DAMS di Bologna.

Danza Urbana è stato quindi il primo festival in Italia incentrato sul rapporto tra danza e spazio urbano: in esso culmina il lavoro che viene svolto dall’Associazione Danza Urbana per tutto l’anno su un doppio binario e che si fonda, per una parte, sulla selezione e il sostegno degli artisti, e per altro verso sul recupero e la valorizzazione degli spazi cittadini, con l’intento di porre in dialogo i luoghi con il sistema di pensiero dei cittadini, con riferimento particolare all’ampio tema dell’abitare. La danza diventa la lente che trasforma e rinnova i luoghi anche in un tentativo di dialogo intergenerazionale, sia fra gli spettatori che fra gli artisti invitati. E davvero in 25 anni si arriva alla terza generazione di spettatori, come dichiara qualcuno dei presenti il terzo giorno alle performance in piazza Lucio Dalla, e che ricorda di quando assisteva ai primi spettacoli accompagnata dalla mamma, mentre ora arriva con i piccoli figli.

E qui di seguito raccontiamo proprio i primi tre giorni del festival, che è iniziato il 7 settembre sotto la pioggia, con una surreale ma affascinantissima performance in Piazza Maggiore pensata da Fabrizio FavaleThe Rose Alien Tour: arrivano su un vecchio camper Westfalia che trasporta per città e luoghi sconosciuti, oltre al coreografo, otto danzatori e un musicista.
A ogni tappa il musicista tiene un concerto utilizzando i suoni dell’ambiente in cui si trova, mentre i danzatori realizzano coreografie e assetti sempre diversi.
Il sonoro viene diffuso con dei dispositivi bluetooth che sembrano radioline e che propagano prima un suono industriale tenue, che diventa via via più forte. Ma qui a Bologna la pioggia arriva inesorabile, come spesso accaduto all’esordio del Festival: scrosciante bagna gli artisti e i tappeti danza, disposti sul gradone della piazza, rendendoli scivolosi. La performance assume una sorta di poetica tragica, con i danzatori che dovrebbero avere una movenza quasi disumana, meccanica, ma che raccontano una fragilissima e umanissima resilienza all’incombere della natura. Nella piazza vuota le loro tutine metallizzate spiccano e regalano un atto poetico generoso, fra pose singole, composizioni di gruppo, pause, riprese, singulti. Sembrano quadri viventi di opere pittoriche rinascimentali, primavere di Botticelli riallestite dal vivo da esseri bionici e non ancora giunti alla perfezione del movimento umano. Escono uno ad uno, in fine di performance, per risalire sul pulmino che poco dopo essere ripartito li fa scendere per far tributare loro il giusto plauso del pubblico.

Sotto la pioggia e una tempesta di fulmini il pubblico raggiunge lo spazio DumBo, dove in uno dei vecchi capannoni industriali si ambienta If there is no sun, cocreazione dell’artista visivo e regista teatrale romano Luca Brinchi, della cantante e beatmaker italiana di origine liberiana Karima 2G aka Anna Maria Gehnyei e della performer e coreografa pugliese Irene Russolillo il cui incontro risale al 2020: in If there is no sun convergono le esperienze e le visioni dei tre artisti che si mettono in gioco insieme per la prima volta, in una creazione tumultuosa e di segni forti, decisi, un tributo a tutte quelle forme dell’esistenza diverse dalla nostra.

In scena ci sono, con le loro differenti corporeità, Antoine Danfa, Karima DueG, Irene Russolillo, Mapathe Sakho e Ilyes Triki. Strutture di corpi che reclamano un diritto all’esistenza scevra da sensi di colpa: non è colpa mia se esisto, e in quanto essere vivente divento portatore di diritti, a maggior ragione in un mondo che ne predica l’esistenza senza però davvero riempirla di contenuti. Una invocazione/rivendicazione a tratti rabbiosa, in cui l’essere umano si animalizza, si vegetalizza, diventa emblema assoluto delle forme viventi, le stesse che cannibalizza e porta all’estinzione.

Ma qui il discorso diventa noto al lettore e dunque lasciamo l’intuibile sostrato filosofico, per tornare ai segni scenici che si nutrono di un costante rapporto con i video e le luci, che nei crediti di locandina, giustamente, vanno sotto l’ampia definizione di “ambiente”, la cui firma è appunto di Brinchi. In questo ambiente ora suggestivo, ora angosciante, ora di paesaggi marini ora di mosaici di luce, ora di castellucciane parole proiettate in rapida, e poi ribadite in forma di rap dalla cantante performer, il gesto diventa immediatamente politico. Ad un certo punto, dopo un drammatico urlo a perdifiato, la creazione vorrebbe ritrovare una sorta di largo sinfonico, sebbene lo scalino concettuale risulti un po’ sconnesso rispetto al sistema di segni precedente.

Ci si sposta il giorno seguente in Piazza Lucio Dalla, vivacissima area coperta e luogo nuovo della street culture bolognese, per due duetti al maschile. Il primo è Moi-Je, passo a due coreografato da Fabian Thomé / Full Time Company (primo premio al 33° Concorso Coreografico di Madrid nel 2019 e premio con menzione speciale al concorso Masdanza 2020, Humos 2020), e danzato dal coreografo stesso con Gonzalo Peguero Pérez. I due danzatori giocano di rincorse e intersezioni, prossimità e distanze, unioni e lontananze.

Una armonia di segni tenue che prelude al successivo e più vivace micro duetto di Gil Kerer che danza con Lotem Regev il Concerto per mandolino e archi in Do Maggiore di Vivaldi. Anticipato da una onestamente inutile polemica sull’ospitata, che costringe un ingente numero di camionette di carabinieri ad assistere allo spettacolo (esercizio comunque sempre utile di ingentilimento del sentire, e che forse è la vera ricaduta positiva della polemica) lo spettacolo –presentato in anteprima come parte del Curtain Up Project 2020 a Tel-Aviv – è un duetto in tre movimenti che ha vinto sia il 3° premio per la coreografia che il Premio di produzione Theatre Pforzheim nell’ambito del 35° Concorso Internazionale di Coreografia di Hannover. Nel 2021 ha ottenuto il Premio per l’interpretazione del Ministero della Cultura in Israele (l’origine geografica e la copertura delle spese di viaggio, il motivo della polemica).

Per fortuna il fatto artistico sgombra la mente da ogni polemica, lasciando all’intreccio fra la musicalità a un tempo classica e popolare del mandolino con il segno fisico elegante ma sportivo, di pliè in sneakers di coinvolgere gli spettatori. I tre movimenti sono eseguiti con precisione in un danzato che cerca il pubblico in un rito che diventa in qualche modo partecipato pur nella semplice funzione di assistere.

Una performance ludica ed estremamente consapevole, fatta di libertà di gesto e di virtuosismi, presentata nell’ambito di Masdanza Platform in collaborazione con il Certamen Coreografico – MASDANZA, che qui raccoglie un calorosissimo riscontro di pubblico, critica e forze dell’ordine. Bello, infatti l’ho rivisto integralmente nella replica che ne è stata fatta di lì a un’ora.

Ispirati al principio della creazione di azioni performative site specific sono gli eventi del giorno successivo, il venerdì, in riva al fiume Reno, in un’area periferica della città, al confine con il comune di Borgo Panigale. Una grande area verde di paesaggi insoliti, resi stranianti dalle secche di questi mesi, che hanno permesso, ad esempio, a Lorenzo Morandini di ambientare La Möa, ispirato allo specchio d’acqua nel torrente, in cui il corpo osserva il paesaggio e si osserva dentro a esso.
Dal 2018 al 2021 Morandini è fra gli autori di Incubatore CIMD a Milano in cui sviluppa il progetto Idillio, selezionato per la Vetrina di Anticorpi XL 2021 e in contemporanea un percorso personale di ricerca di movimento ispirato a esperienze di training svolte in natura.
Il pubblico viene qui radunato nel parco al bordo del fiume dapprima attorno a una funzione di narrazione, con una voce off che arriva da una cassa bluetooth portata a tracolla dal danzatore, che indossa uno strano vestito da simil fauno/alpino. Sono voci di memorie di questo luogo, il cui sonoro si corrompe, arriva imperfetto; il danzatore con fare giocoso conduce, tipo pifferaio magico, sotto un albero, dove gioca con delle pietre in movimento rotatorio con le braccia, a farle sbattere, suonare, per poi lasciare tutti e dirigersi nel greto del fiume, in azione più solitaria e immersiva, da fauno.
Il sistema di segni è fresco, leggero, rasenta una naïveté che lascia però anche una sensazione di non sufficiente elaborazione di secondo livello, che è compito dell’artista, specie nel rapporto diretto con lo stimolo naturale, superando il semplice gioco stimolo naturale/reazione data dalle sensazioni fisiche. La forza del torrente che agisce sul corpo e la sua potenza trasformativa danzata restano più idee ispiratrici del fatto artistico che concreta descrizione delle stesse: l’immagine finale si condensa nel rinvenimento casuale di un flacone plastico di bagnoschiuma Vidal, arrivato lì per caso trascinato dalla corrente e lì restato, e che il performer restituisce inesorabilmente alle acque.

Segue, in altra zona del parco, di profonda suggestione architettonica, la visione di Sull’irrequietezza del divenire di Fabio Brusadin / Edoardo Sansonne / Elisa Sbaragli, nato da una riflessione sugli spazi interstiziali. Parliamo di un progetto giovane, di una creazione vincitrice del bando DANCESCAPES/Bodyscape, azione a sostegno della ricerca coreografica, promosso dall’Associazione Danza Urbana.

Anche qui una dantesca funzione di medium, introduttiva, porta gli spettatori prossimi all’atto performativo vero e proprio. Veniamo condotti fra i due ponti del tracciato ferroviario e della metropolitana leggera Marconi Airport nel punto in cui, vicini e paralleli, attraversano il fiume. Uno spazio imboscatissimo, nascosto allo sguardo del passante, dell’uomo comune in macchina. Bisogna arrivarci. Invero senza reale fatica, nessuna scarpinata, ma è posto di quelli da cui ci si tiene alla larga, architettonicamente stupendo per le sue linee di fuga: la sensazione che trasmette è quella di non-luogo periferico a ridosso del fiume, posto di isolamento, abbandono, possibile autoemarginazione spirituale e anche emarginazione reale. Sono tutte sensazioni che il pubblico respira durante l’atto artistico.

Lo spettacolo nasce dopo una passeggiatina con gli spettatori che guardano un corpo in movimento su due tablet mostrati da due uomini e in cui, si scoprirà di lì a poco, sono riprodotti i movimenti della danzatrice, nascosta allo sguardo. I due registrano una parte vocale (invero non concretamente significativa nel  sistema simbolico del lavoro) che per un pezzo accompagna i successivi pochi passi che portano il gruppo attorno al corpo della Sbaragli: si alza dalla sua posizione a terra per iniziare a camminare dentro il gruppo, in modo meccanico, cercando l’incidente fisico, il contatto, come fosse robot.
Questo bordo irrequieto fra umano e disumano, letteralmente, diventa il protagonista dell’ultima parte dell’azione, una sorta di solitaria morte e rinascita del cigno, se il paragone in piccolo è permesso, anche qui un tentativo di comunicazione con il non-umano, che nella replica cui assistiamo avviene in controcanto con il fin di vita, realissimo, di un volatile, di cui si è tutti casuali e inermi spettatori, a pochi metri. Uno spazio mentale feroce si apre in questo stare nel luogo, accoglierlo con tutto l’inesorabile che solo il confronto con la realtà fuori dallo spazio teatrale permette. Pur con qualche ingenuità formale e ripetizione di segni su cui si può ancora lavorare in sottrazione, la creazione arriva a un nitore compositivo interessante, sia per l’ambiente che per il sistema di geografie pensate dentro un appropriato intreccio di linguaggi ibridi (visivo, corporeo, sonoro).

 

THE ROSE ALIEN TOUR

Invenzione e coreografia
Fabrizio Favale
Live electronics dal vivo
Massimo Carozzi
Danzatori
Daniele Bianco, Daniel Cantero, Claudia Gesmundo, Francesco Leone, Mirko Paparusso, Andrea Rizzo, Valentina Staltari, Po-Nien Wang
Scene, costumi e adattamento
First Rose
Driver Westfalia
Luca Li Voti
produzione
KLm – Kinkaleri / Le Supplici / mk
fotografo
Paolo Cortesi
con il contributo di
Comune di Bologna – Area Metropolitana di Bologna – Destinazione Turistica nell’ambito di Bologna Estate 2022 / MiC / Regione Emilia-Romagna
durata
30′

 

IF THERE IS NO SUN

creazione
Luca Brinchi, Karima DueG, Irene Russolillo
performance
Antoine Danfa, Karima DueG, Irene Russolillo, Mapathe Sakho, Ilyes Triki
musiche
Drexciya, Kawabate, Karima DueG
testi
Sun Ra, Ladan Osman, Felwine Sarr, Keorapetse Kgositsile, Karima DueG
ambiente
Luca Brinchi
movimento
Irene Russolillo
suono
Edoardo Sansonne / Kawabate
costumi
Marta Genovese
ideato nell’ambito di
CRISOL – creative processes Un progetto di internazionalizzazione dei processi creativi finanziato nell’ambito del programma Boarding Pass Plus 2019 promosso dal MiBACT Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo
produzione
Fondazione Fabbrica Europa per le arti contemporanee, Gruppo Nanou, Spellbound Associazione
con il sostegno di
Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Danza Urbana, Menhir Dance Company / Talos Festival – Ruvo di Puglia
residenze
Centre Culturel Blaise Senghor, Dakar Compagnie 5me Dimension, Dakar MADA Théâtre, Tataouine PARC Performing Arts Research Centre, Firenze
In collaborazione con
Istituto Italiano di Cultura di Dakar, Istituto Italiano di Cultura di Tunisi
durata
50′

 

MOJ JE

regia e coreografia
Fabian Thomé
cast
Gonzalo Peguero Pérez e Fabian Thomé
musiche originali
Miguel Marin Pavon
video e fotografia
Ignacio Urrutia
manager
Valeria Cosi/Agenzia TINA
durata
20′

 

coreografia
Gil Kerer
danzatori
Gil Kerer e Lotem Regev
musica
Concerto di Vivaldi per mandolino e archi in do maggiore, eseguito da Avi Avital e l’Orchestra Barocca di Venezia
consulente artistico
Anat Cederbaum
direzione prove
Alex Shmurak
video
Kino Kitchen
durata
15′

 

 

 

MOA

di e con
Lorenzo Morandini
produzione
NINA
con il supporto di
Pluraldanza – Danzare A Monte
durata
30′

 

SULL’IRREQUIETEZZA DEL DIVENIRE

di e con
FABIO BRUSADIN, EDOARDO SANSONNE, ELISA SBARAGLI
ricerca sonora
EDOARDO SANSONNE
proiezioni, disegno luci ed interazioni
FABIO BRUSADIN
movement coach
ROSITA MARIANI
produzione
DANCEME (PERYPEZYE URBANE) con il sostegno del MiC
co-produzione
FESTIVAL VENERE IN TEATRO organizzato da LIVE ARTS CULTURES
Con il supporto di
ASSOCIAZIONE CULTURALE MASTRONAUTA e DRAGOLAGO nell’ambito del progetto Verde Vivente; MUSEO DEL PAESAGGIO
con il contributo e patrocinio del
COMUNE DI CITTA’ DI VERBANIA
Sostegno alla ricerca da parte di esperti
FRANCESCO BLARDONI, SIMONA FERRARI, PAOLA GIROLDINI, METAXI MARKAKI, IRENE PIPICELLI, ANDREA RUSCHETTI, FEDERICA TORGANO, NATALE ZOPPIS
durata
30′