GILDA TENTORIO | Il Festival VIE ospita quest’anno la recente opera della regista greca Argyrò Chioti, Halepàs, dedicata alla figura emblematica di Yannoulis Halepàs (1851-1938), scultore potente dalla vita tormentata (qui il trailer). Grazie al contatto di ERT (coproduttore dello spettacolo) abbiamo intervistato la regista, che è stata felice di poter chiacchierare in greco con noi.

Sei la regista della compagnia VASISTAS (nata nel 2005). Hanno definito il vostro linguaggio post-moderno, post-drammatico, di avanguardia. Quali novità avete portato nel teatro greco?

Non amo le etichette, che quando si incollano sono difficili da togliere. Ad esempio, pur dopo tanti anni, parlano di me come “giovane artista”. Il mio scopo non è mai stato il nuovo a tutti i costi, ma portare un tono personale, offrire uno sguardo particolare e diverso, fare un’opera generosa e sincera. Forse è vero, noi VASISTAS abbiamo creato lavori post-drammatici, nel senso che, anche da spettatrice, non ho mai sentito la necessità di una drammaturgia convenzionale, cioè di un teatro psicologico in cui gli attori sulla scena ti spiegano ogni cosa. Questo non mi è mai piaciuto. Io comincio sempre i miei lavori partendo da una domanda e cerco di aprire spazi anche per la mia interiorità, perché ogni volta voglio anche sorprendere me stessa. Insomma, non ho una cifra caratteristica che ho “scoperto” ma continuo sempre nella stessa direzione.

Νel 2017 avete stupito con una versione della Divina Commedia su roller e con quartetto d’archi. Quale è stata domanda alla base di quel lavoro?

In molte mie opere torna spesso l’immagine dell’Ade, come è successo per esempio con le Rane di Aristofane che ho presentato l’anno scorso a Epidauro. Quando ho messo mano al capolavoro di Dante, la sfida era: come possiamo in un’ora e mezza risalire dalle tenebre alla luce? Come ricreare la musicalità di questa straordinaria poesia e viverla come un viaggio? Anche in quel caso era importante la musica. E una cosa simile accade anche in Halepàs: ci tuffiamo nel suo inferno personale per poi risalire.

Veniamo allo spettacolo Halepàs. Il pubblico italiano sarà pronto a seguire la storia di una figura purtroppo ignota nel nostro Paese?

Si tratta di uno scultore greco, ma la sua storia è universale e può parlare a tutti. Forniremo al pubblico in sala alcune coordinate orientative e intanto posso anticiparvi alcuni dati. Due sono le sue opere più significative: la Fanciulla dormiente (capolavoro sepolcrale del 1878 visibile ancora oggi al Cimitero Monumentale di Atene), che rappresenta la diciassettenne Sofia Afentaki morta di turbercolosi; la Medea (ad esempio la terza versione del 1933, oggi alla Pinacoteca nazionale). Mostreremo queste immagini durante lo spettacolo, insieme ad altri suoi schizzi. Qualche dato biografico essenziale: Halepàs nasce nell’isola di Tinos, da una famiglia di marmisti esperti di lapidi tombali. Dopo la Fanciulla dormiente comincia a dare segni di profonda malinconia e squilibrio, viene rinchiuso in manicomio per ben 14 anni. Finalmente dimesso, ritorna a Tinos e vive immerso nella natura: fa il pastore, ama molto le sue pecore e piange quando vengono portate al macello. E alla fine, all’alba dei suoi 65-70 anni, trova la pace interiore grazie all’arte, creando in un modo più rivoluzionario rispetto alla giovinezza: si libera dalle gabbie della forma, dai paludamenti accademici, non gli interessa il dettaglio netto e la precisione lineare, ma riesce a coniugare spontaneità e simbolo, puntando all’essenza.

Con quali mezzi teatrali esprimete la forza plasmatrice della scultura?

Quando ho visitato l’isola di Tinos e il villaggio di Halepàs ho vissuto una straordinaria esperienza: il paesaggio, il mare ma soprattutto la pietra. Il marmo è ovunque, e sembra pronto a parlare di forme e di storie. Nel nostro spettacolo non vedrete una ricostruzione realistica del paesaggio isolano. A Tinos non ci sono cipressi, ma noi abbiamo deciso di inserirli in scena. La loro presenza è quindi simbolica: vogliamo infatti costruire un paesaggio mentale e i cipressi segnano i confini di questo mondo astratto.
Inoltre non vedrete pietre ma ci sarà un grande canovaccio dove tracceremo degli schizzi, come faceva Halepàs. In generale la pietra è un elemento duro, che racchiude però una grande sensibilità: ad esempio può creparsi alle intemperie o per le infiltrazioni dell’acqua. Ma per romperla nel modo giusto lo scultore deve conoscerne le vene e la sua malleabilità. Sulla sua superficie ritrovi le tracce del tempo che passa e inoltre la pietra racchiude storie che lo scultore sa estrarre.
Ecco, la pietra come binomio di contraddizioni: è questo che si ritrova nel paesaggio mentale del nostro spettacolo. E in effetti ho lavorato molto sul senso del doppio e dell’antitesi: all’inizio vedrete due attori, che interpretano Halepàs e il suo alter ego, cioè un’altra voce che lo spinge a scelte diverse e antitetiche. Due uomini, due strade, due voci, una lotta continua, come se fosse la sua ombra a parlargli, frapponendo ostacoli. Durezza e sensibilità, come la pietra.

ph. Andreas Simopoulos

La storia di Halepàs può parlare all’oggi ed essere anche una parabola della Grecia contemporanea?

Certo. Halepàs somiglia a un eroe tragico e la sua storia parla molto all’oggi: ciascuno di noi, soprattutto negli ultimi anni difficili della pandemia ha vissuto e vive nella sua piccola prigione, con l’incubo delle restrizioni, il complesso rapporto con il “fuori”, cioè come esisto e co-esisto con gli altri, specialmente quando sento di avere un grado di diversità rispetto al mondo.

Da quali elementi riconosceremo che questo è uno spettacolo “greco”?

Ci saranno pochi elementi di stilizzazione paesistica, come i cipressi, e poi la wind-machine, che produrrà raffiche di vento molto forti. Perché a Tinos soffia sempre il vento. E ancora oggi si dice che se rimani troppo a lungo sull’isola, il vento ti può dare alla testa…
Ma, al di là della storia di Halepàs, che è greco ma è personaggio universale, penso che la grecità di questa opera si trovi soprattutto nella modalità di “scrittura”. Non solo nel senso del libretto, scritto da The Boy [pseudonimo Alexander Voulgaris, 1981-, protagonista della scena cinematografica e musicale greca, N.d.R.], perché questo è uno spettacolo prima di tutto musicale e di immagini. Non ci sono molte parole, perché le cose “succedono” in scena, quindi le possiamo vedere e ascoltare, senza che sia necessaria una spiegazione. E naturalmente questo dà la libertà a ognuno di interpretarle in modo diverso.
Abbiamo seguito in qualche modo una “scrittura” greca: un linguaggio poetico, ma anche la ricca tradizione popolare e la tragedia antica. In particolare, è “tragico” in senso lato il tema (il singolo si scontra con la società), ma anche la struttura. Non dimentichiamo poi che Halepàs stesso studiava la tragedia, e aveva un’ossessione per Medea, che ha ritratto in diverse versioni. L’elemento più caratteristico della nostra scrittura “tragica” è forse la presenza del Coro, che nel libretto chiamiamo “Coro delle statue incompiute”: quindi esecuzione corale a voce sola e interventi che commentano e anticipano ciò che accadrà, un po’ come succedeva nelle tragedie antiche.

ph. Andreas Simopoulos

Un’altra caratteristica “greca” è l’attenzione alla musica, che non è semplice accompagnamento o commento decorativo.

Sì, la musica è l’altro grande protagonista. Se l’immagine è un anello indispensabile alla sintesi creativa, la musica è un elemento organico, è corpo, un modo di coesistere nello spazio ed esprimere ogni cosa.
Da alcuni anni collaboro con l’artista Jan Van Angelopoulos, che partecipa alle prove e compone a poco a poco, mentre lo spettacolo cresce. E così attraverso la musica si crea una lingua particolare. Qualche critico in Grecia ha definito il nostro spettacolo “oratorio tragico”, proprio per questa enfasi sulla musica. Sono sempre più convinta inoltre che la musica debba essere non un’aggiunta esterna, ma deve provenire dalla scena e dagli attori. Musica e canto aprono degli interstizi nel nostro cuore, è come se placassero il pensiero razionale e ci aprissero sentieri impensati verso un’altra dimensione rispetto alla realtà quotidiana.

I critici hanno definito lo spettacolo anche una “tragedia contemporanea”, però con un finale inatteso. Ci puoi anticipare qualche elemento?

La storia di Halepàs ha un finale eccezionale. Tutti ci aspetteremmo che dopo le sofferenze e i tanti anni in manicomio, quest’uomo scegliesse un finale tragico, il suicidio. E invece è proprio il contrario. Ormai anziano, dice: “Il nuovo Halepàs (cioè le sue ultime opere, quelle della maturità) ha superato il vecchio (cioè le opere giovanili)”.
Ecco un’altra contraddizione affascinante: il vecchio supera il giovane. Halepàs sconvolge ogni rotta prestabilita e ti sorprende, è questo che mi ha spinto a pensare che la sua storia fosse necessaria anche per i nostri tempi. Non esiste limite di età: lui è fiorito dopo i 65 anni, quando si è liberato di forme, paletti, regole e modelli. È diventato giovane da vecchio, attraverso la creazione. E finalmente attraverso la sua opera è riuscito a parlare, essere ascoltato e riconosciuto dal mondo.
Allargando la prospettiva, la sua storia ci impone di riflettere: forse l’arte può essere la soluzione?

Perché l’età contemporanea ha bisogno di biografie? Siamo alla ricerca di modelli paradigmatici in un mondo senza più punti di riferimento oppure è semplice curiosità per le pieghe nascoste della vita dei grandi?

Penso che oggi ci rifugiamo nelle biografie non tanto per il desiderio di storie, ma perché abbiamo bisogno di piccoli fari, uomini che si staccano dalla banalità e aprono tendenze verso direzioni inaspettate. Ci aiutano a sperare, ci spingono a osare, ci danno la sensazione che anche l’impensabile è possibile. Oggi abbiamo bisogno di fari viventi per andare avanti, trovare forza ed esempi. Perché nelle nostre vite non ci siano soffitti a limitare la nostra crescita.

Quali sono le vostre aspettative per questa première italiana ma anche europea?

Siamo elettrizzati: è la nostra prima volta in Italia (di solito lavoriamo in Francia). Finora abbiamo potuto apprezzare la professionalità e disponibilità dei collaboratori di ERT e quindi abbiamo grandi aspettative. Inoltre lo spettacolo entrerà in contatto con un pubblico non-greco, che non conosce la storia del protagonista e non ha conoscenza diretta della lingua. Sarà quindi una sfida. Sono convinta che anche gli italiani saranno conquistati dalla storia di Halepàs, che tocca chiunque, proprio come fa un eroe tragico.

HALEPÀS

Regia Argyro Chioti
Libretto The Boy 
Ideazione e direzione di scena Argyro Chioti 
Composizione musicale e sound design Jan Van Angelopoulos 
Scena e costumi Efi Birba
Luci Tasos Palaioroutas 
Training fisico Chara Kotsali 
Consulente drammaturgico Efthimis Theou
Collaboratore artistico Nefeli Gioti
Supervisore tecnico del suono Nikos Kollias
Cura della produzione Maria Dourou / VASISTAS 
Con Georgina Chriskioti, Simos Kakalas, Chara Kotsali, Antonis Miriagos, Giorgos Nikopoulos, Dimitris Sotiriou, Aliki Stenou, Argyro Chioti

Prodotto da ONASSIS STEGI 
Coproduzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
Supportato in tournée dall’Outward Turn Program di ONASSIS STEGI

Festival VIE, Bologna | Arena del Sole, 14-15 ottobre 2022