GIORGIO FRANCHI | In quattro edizioni solo una cosa non è cambiata: l’obiettivo di aumentare il FIL, la “felicità interna lorda” della città. Su questa missione (o “mission”, nella koinè internescional della galassia dei fringe), il Milano Off Fringe Festival fonda la sua Chiesa. O meglio, le sue chiese: da Lambrate al Giambellino, tra ben ventiquattro fra teatri, sale concerti, musei e spazi polifunzionali, si dipana una liturgia che rifiuta la claustrofobia dello spettacolo preconfezionato da grande stabile.
Vastissima la selezione del festival: almeno due spettacoli al giorno nei vari spazi, dal 22 al 25 settembre e dal 29 al 2 ottobre. Con la speranza, per le compagnie partecipanti, di vincere uno dei premi, passando per il giudizio di quattro giurie: tre popolari (on line, di giovani e di spettatori esperti) e una aderente alla rete mondiale (o “network”, nella sopracitata koinè) dei fringe, da Avignone a Las Vegas.
Vedere ogni spettacolo di un’offerta tanto abbondante avrebbe richiesto almeno una settimana di ferie, se non addirittura il dono dell’ubiquità. Le prime proposte sottoposte all’occhio critico di PAC, nel primo fine settimana di spettacoli, sono state vagliate da Renzo Francabandera in questa cronaca dalla roccaforte de La fabbrica del vapore, uno dei tantissimi luoghi del festival.

Con il mantenimento di una certa continuità toponomastica, la nostra prima visita è stata alla Fabbrica di Lampadine, spazio teatrale in zona Fulvio Testi, subito dopo la Bicocca. È una sera di pioggia fitta, tenebrosa, che spalanca le porte dell’autunno: non poteva esserci introduzione migliore per Cafards. Il buio dopo l’alba, della compagnia PAT – Passi Teatrali. Nel pieno dell’estinzione dell’umanità, tenuta sotto scacco da una minaccia incombente, a cui solo raramente e con la voce rotta dal terrore si accenna, un ragazzo fa la guardia alla sorella, ferita da un’arma da fuoco. Quando un gruppo di superstiti si accampa in casa sua, attendendo l’arrivo di una barca che salverà tutti e cinque, la stanza diventa una bomba a orologeria, pronta a esplodere: la reclusione, in attesa dell’inconoscibile che avanza, costringe il gruppo a confrontarsi con i propri sogni, rimpianti, insicurezze, con tutto ciò che davano per vero e che ora sono costretti ad abbandonare.

Cafards. Il buio dopo l’alba.

Testo e regia portano la firma di Nick Russo: come il nome del suo creatore, anche la drammaturgia mischia a un’ambientazione tipicamente italiana un po’ di sana tamarraggine a stelle e strisce. I personaggi reclusi ricordano con nostalgia il sapore della zizzona di Battipaglia, da accompagnare a un buon whisky in solitaria. Affiora così la giusta conclusione di questo tandem tra l’atmosfera tesa inesplosa alla Pinter e la spocchia caricaturale di Michael Bay: i superstiti anticipano l’apocalisse anticipandosi tra loro, dedicando l’ultimo pensiero a un hamburger di Mac Donald’s, ultima idea immacolata in mezzo alle vestigia di un passato già vittima dello stesso destino autodistruttivo. In questo lavoro spiazzante e ben congegnato, una menzione d’onore va ai costumi di Noemi Intino.

Restando sulla cresta del dark, ci spostiamo alla Casa Museo Spazio Tadini per Dio non parla svedese. Il monologo di e con Diego Frisina, diretto da Ludovico Buldini, è un rocambolesco tuffo nel delirio dispercettivo sotto la lente dell’umorismo più spiazzante e disincantato.

Foto di Simona Albani.

Un uomo affetto dalla Corea di Huntington, malattia cronica che offusca progressivamente le facoltà mentali ereditata per via paterna, comincia ad affrontare la vita così come gli si pone: ovvero, senza nessun senso. E come potrebbe averne, se presto non sarà nemmeno più in grado di distinguere un oggetto da un altro? A nulla valgono le raccomandazioni dello psicologo (uno strizzacervelli dall’accento tedesco, secondo il topos di Billy Wilder): la via di fuga è un nichilismo dall’applicazione costante, che sarà il suo Virgilio in un viaggio che oscilla dagli atti osceni in luogo pubblico a droghe di ogni tipo.

La malattia mentale, oltre che il fil rouge del monologo di questo Joker 2.0, diventa cornice di tutto il racconto: il personaggio non riconosce nessun luogo reale attorno a sé, come se la sua capacità di riconoscere dove si trovi fosse ormai irrimediabilmente perduta. I continui affondi contro la società, profondi e taglienti come ferite del coltello che lo accompagna in scena, seducono il pubblico a suon di risate: non è semplice umorismo consolatorio, di identificazione, bensì la reazione primigenia di difesa dell’uomo quando si trova privato dei suoi punti di riferimento.

CAFARDS. IL BUIO DOPO L’ALBA
testo e regia Nick Russo
con Giacomo Bottoni, Gledis Cinque, Beatrice Gattai, Andrea Pellizzoni, Filippo Tirabassi
luci Federico Toraldo
costumi Noemi Intino
produzione PAT – Passi Teatrali

DIO NON PARLA SVEDESE
di e con Diego Frisina
regia Ludovico Buldini