RENZO FRANCABANDERA | Il percorso di indagine svolto da Mario Perrotta dentro le relazioni familiari rilette attraverso il medium teatrale è arrivato, nelle ultime settimane, all’atto finale della trilogia da cui il regista, drammaturgo e attore ha voluto fosse composto, nata come una sorta di preghiera che replicava già dal titolo il segno cristiano della croce – i tre atti si intitolavano infatti Nel nome del padre, Della madre, e ora Dei figli).
Il terzo episodio del trittico è probabilmente la meta del viaggio, motore originario dell’impresa, nata anche da istanze autobiografiche e dalla necessità di comprendere a fondo il ruolo della genitorialità oggi: questa ricerca pluriennale ha avuto caratteristiche fin da subito orientate all’indagine psicologica.
Già dal primo atto dedicato alla figura paterna, infatti, Perrotta ha chiesto supporto per la stesura della drammaturgia a Massimo Recalcati, noto studioso psicanalista e divulgatore scientifico, con il quale per ore l’artista teatrale ha dialogato, per arrivare ad una definizione dei prototipi caratteriali più comuni nella società odierna. Il primo atto aveva la caratteristica del monologo, sebbene Perrotta interpretasse più figure maschili, e ciascuna delle figure era emblematica della fragilità di questo ruolo nella nuova famiglia alle soglie del secondo millennio.

Il secondo, di cui pure per PAC ci siamo occupati, poneva in luce la preponderante, immanente e immobile figura della madre, gigante e a volte ossessiva nel suo essere troppo presente, ingombrante.
Il terzo, che dopo alcune repliche di studio ha avuto il suo debutto vero e proprio a Castrovillari, al Festival Primavera dei Teatri, ha come obiettivo quello di andare ad esaminare la dinamica filiale nella società del post lavoro e della digitalità, una dinamica letta attraverso le vicende di quattro persone, tutte in una ideale tardo-adolescenza infinita, che vivono dentro la casa di uno di loro che affitta le altre stanze  a sempiterni studenti fuori sede, fuori corso, semplicemente fuori. Ciascuno di loro ha una vita incompiuta, un percorso irrisolto e irrealizzato, di cui è proiezione un inesausto lacaniano rapporto con i genitori, che costretti anche loro all’immutabile ruolo, non arrivano neanche essi a diventare mai adulti (quando ci sono).

Lo spettacolo nella distribuzione degli elementi scenici si svolge dunque in un interno domestico, di cui sono emblematiche postazioni, quasi nidi stilizzati su steli di ferro, quattro sedute in ferro battuto. Una ampia luce ambientale racconta questa casa che non ha pareti, e tutto si fonde in una liquidità esistenziale dove la privacy di fatto non esiste, come deve essere nell’era digitale, in cui si accordano protocolli di privacy lunghissimi, ma le grandi multinazionali dell’informatica conoscono di noi qualsiasi clic.
A fondo scena tre schermi di proiezione video, in corrispondenza delle postazioni dei tre giovani, mentre le azioni del personaggio Gaetano, interpretato da Perrotta, quando in solitudine sono raccontate con una illuminazione fredda, diretta, nell’immaginario buio della sua stanza. Alla destra del palco una scala con tre gradini di ferro allude a una sorta di pianerottolo esterno, il classico luogo dove consumare una qualche sigaretta all’aria aperta.
Ma in realtà il mondo esterno entra in modo importante nelle vicende domestiche, fin da subito, e lo fa attraverso il supporto tecnologico, la comunicazione digitale, la video chat, la video chiamata. Il maggiore degli abitanti della casa, Gaetano, il proprietario, inizia lo spettacolo intrattenendo  delle partner online con conversazioni intonate a rapporti di dominanza sadomaso. Si scoprirà poi nel seguito la sua identità omosessuale, e dunque questa finta proiezione di sé attraverso il medium. L’uomo vive praticamente in vestaglia, è un elegante accessorio domestico invero di pregevole fattura sartoriale opera di Sabrina Beretta. In analoghe mise, che sanno poco più che di scendiletto sono anche gli altri protagonisti dello spettacolo, i più giovani sublocatari Melampo, Aurora e Ippolito (rispettivamente Luigi Bignone, Dalila Desiree Cozzolino e Matteo Ippolito), quelli che all’inizio vengono coccolati e accuditi dal ultracinquantenni padrone di casa quasi come figlioletti, rimboccati nel loro stare a nanna sulle note de I sogni son desideri: in realtà sono i suoi coinquilini subaffittuari, due ragazzi e una ragazza, tutti con una vita di proiezioni e sogni, ben distanti dalla realtà: Melampo, infantile e invasato, ormai distratto dallo studio, raccoglie fondi per organizzare un grande evento di risonanza planetaria, Occupy Polo Nord, Aurora dice di fare l’avvocato in favore dei diritti delle donne, e Ippolito, quasi 40enne e in una relazione con Aurora, sta dietro da anni al progetto di girare un film.

È la generazione di “giovani”, che da noi arriva ormai ben oltre i 40 anni, che non ha intenzione di abdicare alla figliolanza, un fenomeno questo molto italiano, stigmatizzato da alcuni con il termine “bamboccioni” che aveva suscitato scalpore anni fa, ma che fotografa quella che Michele Serra aveva ribattezzato come la generazione de Gli sdraiati (sul divano e con il cellulare in mano).

Qui gli schermi dei cellulari e dei computer sono grandi video da cui sbucano immanenti i genitori, in particolare quelli di Melampo (Amitaone e Idomenea, interpretati da Arturo Cirillo e Maria Grazia Solano) e Ippolito (Teseo e Fedra, Alessandro Mor e Paola Roscioli). Aurora ha una madre assente e quindi sente in video solo la sorella, Luna (Marta Pizzigallo). Per dirla in cifra semplice sono tre “scappati di casa”, fondamentalmente interpreti di un unico insistito fallimento o dolore, con genitori non meno problematici di loro, palesemente causa della gran parte dei loro disagi. Anche Gaetano ha alcune figure della sua famiglia meridionale di origine, che lo aggiornano via telefono sullo stato di salute dei genitori, con cui ha rotto i ponti per via dell’omosessualità.
In totale, fra le presenze fisiche in scena e quelle che agiscono da remoto, la drammaturgia dà vita a tredici personaggi, creando un complesso di relazioni sufficiente a definire chiaramente, e con una cifra per lo più comica e di satira sociale (qualche volta un po’ facile), il perimetro di questo universo tossico in cui, in parte come nelle precedenti drammaturgie della trilogia, nulla cambia realmente nella vita di questi esseri umani incapaci di andare al cuore dei propri problemi e di voler evolvere (ammesso che sia possibile).
Ma in realtà qui Perrotta un finale diverso prova a crearlo, sia con riguardo ad alcuni personaggi, che trovano o abbozzano la possibilità di una via di fuga, sia proprio come soluzione estetica finale, dove si arriva ad una plastica esemplificazione del presente mass-mediatico, in cui l’attore viene via dal palco, e lascia lo spettatore a guardare gli schermi. Esattamente come facciamo per tante, troppe ore al giorno. E quegli schermi, in ultima analisi, diventano specchi. I personaggi che li abitano, sono riflesso di tanti fra coloro che sono in platea, che in questo finale dai toni che virano al drammatico in modo repentino e inaspettato, trovano una chiamata in causa che è una delle maggiori ricchezze di questa creazione.

ll regista in questi anni ha attraversato e sperimentato davvero ogni genere di esperienza teatrale, e a nostro avviso impropriamente gli si attribuisce una specifica connotazione di artista del teatro di narrazione, che a ben guardare non è cosa organica alla sua pratica artistica. Buona parte degli spettacoli degli ultimi anni si è rivolta peraltro a composizioni corali, anche performative, con  il coinvolgimento di centinaia di persone, come con Bassa Continua nel 2015, o come la trilogia sull’individuo sociale, affrontando i classici, e per la quale ha ricevuto nel 2011 il Premio Ubu. E questo certamente non è spettacolo di narrazione, né un monologo, anzi, Perrotta torna a una coralità (anche canora in diversi momenti dello spettacolo) e per la prima volta scrive una drammaturgia per un numero così ampio di personaggi, confrontandosi anche con la non agevole, ma occorre dire riuscita, mescolanza fra la presenza in scena e quella fuori dalla scena, attraverso il canale video.
La cosa raggiunge una particolare qualità grazie ai notevoli attori e attrici protagonisti delle parti videoregistrate, capaci con la sola mimica facciale e poco più, di innervare i loro caratteri di uno specifico assoluto (fantastiche le interpretazioni della Roscioli e di Cirillo): conferiscono a Dei figli una dinamica grottesca precisa, bilanciando talune acerbità delle più giovani presenze in scena, e provano a rompere le meccaniche dei caratteri psichici, che tendono in questi affreschi della trilogia, per loro stessa natura, a non evolvere, ma a nascere e morire fondamentalmente e patologicamente uguali a se stessi, senza scampo.
Le figure a video, in questo terzo atto della trilogia, sono quindi un’innovazione cruciale nella ricerca di Perrotta, per trovare una soluzione proprio a questo problema drammaturgico dell’evoluzione dei caratteri, già emerso nei precedenti lavori: sono così concrete e immanenti che non pochi spettatori si attendono di vederle uscire in proscenio al momento degli applausi, anche per via del grande sforzo collettivo degli interpreti dal vivo di essere maniacalmente attenti al sincro delle battute e dei tempi, il vero incastro magico di questo spettacolo, che ha  il suo maggior esito proprio nell’esercizio di verosimiglianza della coesistenza fra i video e la recitazione dal vivo. Alla fine, con la astuzia e i mezzi artigianali dei vecchi teatranti, il regista mette in scena uno spettacolo con tredici personaggi, con sole quattro presenze fisiche.
Dei figli, con i suoi pregi e difetti, conferma comunque l’indole di Perrotta a mettersi in discussione, a cercare risposte sul e dal fare teatro. Nessuno dei suoi spettacoli assomiglia a qualcosa di suo già visto o già percorso. Di ciascun passo ha acquisito in maniera nitida la consapevolezza dei punti di forza e di debolezza. E ogni debolezza emersa è diventata la caparbia sfida per la creazione successiva, piuttosto che la cosa da lasciar andare e da cui stare alla larga. È quello che comunque un vero artista deve fare. E Perrotta, gliene va dato atto, pur con un teatro accessibile e non forzatamente intellettualistico, di rado si siede realmente comodo.


DEI FIGLI

uno spettacolo di Mario Perrotta
consulenza alla drammaturgia Massimo Recalcati
con la partecipazione speciale di Arturo Cirillo e Saverio La Ruina
con Luigi Bignone, Dalila Desiree Cozzolino, Matteo Ippolito, Mario Perrotta
e – in video – Arturo Cirillo, Alessandro Mor, Marta Pizzigallo, Paola Roscioli, Maria Grazia Solano
e – in audio – Saverio La Ruina, Marica Nicolai, Paola Roscioli, Maria Grazia Solano
aiuto regia Marica Nicolai
costumi Sabrina Beretta
luci e scene Mario Perrotta
video Diane | Ilaria Scarpa | Luca Telleschi
mashup Vanni Crociani, Mario Perrotta
realizzazione scene Fabrizio Magara
sarta Maria Isabel Anaya
foto Luigi Burroni
produzione Teatro Stabile di Bolzano, Fondazione Sipario Toscana Onlus, La Piccionaia, Permàr
in collaborazione con Comune di Grosseto, Teatro Cristallo, Olinda residenza artistica, La Baracca Medicinateatro, Duel